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Tim Cook e il fuoco sacro di Apple

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Fare l’Applologo, l’esperto di cose di Apple, è un po’ come fare il vaticanista o, un tempo, il cremlinologo. Si vive una vita ad osservare i dettagli, a seguire i movimenti, a studiare gli aruspici da cambiamenti impercettibili.

La lista degli esempi, in più di dieci anni di osservazione costante, è infinita. Non ripercorriamo gli anni passati, ma concentriamoci invece su quel che è accaduto ieri.

Apple ha fatto il suo primo evento senza Steve Jobs. Non quelli “senza Steve Jobs che poi tanto torna tra pochi mesi”, ma quello “senza mai più Steve Jobs” e basta. L’emozione era tanta. Anche se si trattava di un pugno di manager di lungo corso, di persone esperte, la “prova” di ieri sera era su Tim Cook e sul collettivo. Avrebbe convinto? La reazione chimica ci sarebbe stata? Il collettivo avrebbe funzionato o i colonnelli dell’era Jobs si sarebbero mossi in maniera autonoma, ritagliandosi spazi alternativi a quelli di Cook? C’era il rischio di guerra per bande all’interno di Apple?

Tim Cook era emozionato, l’ha detto, ha detto altre cose molto importanti, e ha fatto il suo lavoro. Innanzitutto, cambiando lo stile. Tim Cook è Tim Cook e adesso l’azienda è sua. Lui è il capitano, non è più il primo ufficiale. Deve dare uno stile, un’impronta. E l’ha fatto: mettendo in pista un carattere da diesel marino, però. Tim Cook non è un emotivo, non è un seduttore, non entra in risonanza con la platea, non seduce, non cerca consenso.

Dice le cose che vuole dire, quelle importanti. Ha resettato la location dell’evento, scegliendone una più piccola (sia a Cupertino che a Londra, con meno giornalisti e tutto più controllato). Ha parlato chiaro. Ha ripetuto le cose, ma è stato lungo. Perché su lunghezze analoghe Steve Jobs è più brillante, incanta. Cook no, ma non è colpa sua. E lui lo sa, probabilmente ha scelto la strada più difficile per far capire che Apple va avanti con decisione, che ci sono tanti successi da comunicare, tante cose da fare. Poi, il collettivo. Ha dato una prova d’orgoglio: hanno giocato tutti per la squadra. Il più brillante è stato Phil Schiller, che sia caratterialmente che come esperienza ha la capacità di stare sul palco, di muoversi, di sbagliare e di chiudere gli errori in maniera brillante. Anche se la sensazione che, nervosismo a parte, lo show sia cambiato anche perché sono mancate le infinite prove, il gigantesco spirito perfezionista di Steve Jobs, che chiede prove su prove, senza lasciare nulla al caso e facendo memorizzare a tutti la versione più chiara, più semplice, più sintetica e anche più dura di tutte.

Invece, la sintesi delle differenti presentazioni non era completa: qualche ricciolo di troppo, qualche ripetizione, qualche sovrapposizione che si poteva evitare tra l’uno e l’altro. Un’orchestra che ha suonato con il cuore e tanta generosità, per adesso non un marchingegno perfettamente accordato come è stato finora nell’era Steve Jobs.

Qual è il quadro che se ne ricava? L’idea è che il nuovo corso sia partito nel momento più difficile della curva di presentazioni. E Apple lo sa molto bene. Un iPhone relativamente debole dal punto di immagine, cioè una iterazione del precedente (esteticamente identico al precedente, tutto diverso dentro), con una nuova tecnologia che sarà una rivoluzione paragonabile al multitouch ma che è ancora tutta da capire. Siri è un azzardo, sul palco è arrivata in versione beta.

Apple, cioè Tim Cook, sapeva che sarebbe stata dura, che era tutto appeso a un filo.

Nelle prove a bordo campo, dopo la presentazione, peraltro, Siri incanta e dimostra di avere potenzialità enormi, anche se purtroppo non nella nostra lingua. E questo è un grande limite. Comunque, Cook è riuscito a fare quel che doveva. Ma rimane una perplessità. Pur avendo dato i messaggi giusti nel giusto ordine (quello più importante di tutti, ripetuto all’inizio e alla fine: il segreto di Apple è l’integrazione unica dei suoi hardware, dei suoi software e dei suoi servizi) non si è capito se abbia avuto la sensibilità di capire la complessità e i rischi del gioco che conduce. Se ha annusato le sottigliezze, i possibili passi falsi, i rischi, le potenzialità.

Perché il vero successo di Apple è legato a un qualcosa di unico, di magico, di irripetibile che non si è ancora capito cos’è. Una scintilla, un fuoco sacro che Tim Cook è stato chiamato a vegliare ed alimentare al posto di Steve Jobs. Ha capito come si fa?

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