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La battaglia di Tim Cook per i diritti, Apple non rinuncia alla diversità

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Se c’è una cosa per cui Tim Cook verrà ricordato, non saranno gli iPhone o gli iPad o i Mac con chip Apple Silicon. Non saranno neanche Vision Pro o Apple Watch, per quanto rivoluzionari. La vera eredità del successore di Steve Jobs sarà probabilmente un’altra: la sua battaglia inflessibile per i diritti e l’inclusività.

Una battaglia che oggi trova la sua più recente manifestazione nella decisione di mantenere le politiche DEI (Diversità, Equità e Inclusione, in inglese Diversity, Equity and Inclusion) mentre il resto della Silicon Valley batte in ritirata.

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L’onda che sta travolgendo la tecnologia americana è potente e rumorosa come uno tsunami. Meta ha già gettato la spugna, Amazon si sta ritirando in buon ordine, e una dopo l’altra le grandi aziende tech stanno smantellando i loro programmi di diversità, equità e inclusione.

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Il motivo? Una tempesta perfetta fatta di pressioni conservatrici, paura di cause legali e un clima politico sempre più ostile a quello che viene bollato come “wokismo”. Ma Tim Cook non ci sta. La risposta di Apple agli azionisti che chiedono di eliminare le politiche DEI è stata un secco “no”, motivato con un linguaggio formale ma inequivocabile.

Il “programma di conformità ben consolidato” dell’azienda diventa uno scudo dietro il quale proteggere qualcosa che per Cook non è negoziabile: il diritto di ogni persona di essere se stessa, al lavoro come nella vita. Il 25 febbraio, durante la prossima assemblea annuale degli azionisti, il consiglio di amministrazione di Apple ha raccomandato agli azionisti di votare contro questa proposta.

Una linea nella sabbia

Non è difficile capire da dove venga questa determinazione. Nel 2014, quando Cook fece coming out diventando il primo CEO apertamente gay di una società Fortune 500, non stava solo raccontando la sua storia personale. Stava tracciando una linea nella sabbia, dichiarando che Apple sarebbe stata diversa non solo per i suoi prodotti, ma per i suoi valori.

Da allora, l’azienda di Cupertino ha intrapreso un percorso che l’ha portata ben oltre il “business as usual”. I programmi DEI non sono stati un’operazione di facciata ma sono diventati parte integrante del DNA aziendale. E non si tratta solo di una presa di principio. Cook ha capito una cosa che pochi altri CEO o imprenditori in generale hanno chiara, e cioè che l’innovazione non nasce dalla conformità ma dalla diversità di prospettive, esperienze e background.

È interessante vedere come questa battaglia stia ridefinendo l’eredità di Cook. Il manager ha un’età e soprattutto è sulla cresta dell’onda da tantissimo tempo: è CEO di Apple dal 2011, più di quanto non lo sia stato lo stesso Steve Jobs. E se Jobs era il visionario ossessionato dalla perfezione del prodotto, Cook si sta rivelando il leader che ha capito come la tecnologia debba essere al servizio non solo dell’innovazione, ma anche del progresso sociale.

Non è un caso che Apple sia una delle poche aziende capaci di attrarre i migliori talenti da ogni angolo del mondo. Non si va a Cupertino solo per i soldi, ma anche per un mix di valori che trascendono le classiche “bandiere di marca” in cui i dipendenti “credono”. Non si tratta di credere nella visione di un tecnocrate, ma in un modo di approcciare la vita che è più completo e progressista di altri.

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Il ritorno di Donald Trump

La sfida ora è mantenere questa rotta in acque sempre più agitate. Bisogna parlare di politica e cultura, oltre che di economia e prodotti. Perché è quella che dà la base alla società e quindi alle aziende Con il ritorno di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti la pressione sulle politiche DEI è destinata ad aumentare. Ma Cook sembra aver fatto della resistenza a queste pressioni una questione di principio, quasi personale.

E forse è proprio questo il punto: mentre altri CEO si nascondono dietro calcoli di convenienza o paure legali, Cook ha scelto di combattere questa battaglia a viso aperto. Nonostante abbia pagato pegno per quanto riguarda la rielezione di Trump, andando in un esercizio di realismo a porgere gli omaggi al nuovo/di nuovo presidente degli Stati Uniti, come del resto hanno fatto anche gli altri ceo della Silicon Valley, c’è una linea nella sabbia che non intende superare.

Non è più solo una questione di politiche aziendali: è diventata una battaglia per l’anima stessa della tecnologia di Apple e, in generale, americana. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che è facile per Apple mantenere questa postura dalla sua posizione di forza, con migliaia di miliardi di dollari di capitalizzazione. Ma la verità è che anche altre aziende altrettanto ricche e potenti hanno scelto la via della ritirata. La differenza la fa la leadership.

La battaglia di Tim Cook per i diritti, Apple non rinuncia alla diversità

Il modo in cui la tecnologia usa noi

Alla fine, quando i libri di storia della tecnologia racconteranno l’era post-Jobs di Apple, forse dedicheranno meno spazio agli Apple Watch e più a questa battaglia culturale. Perché se Jobs ha cambiato il modo in cui usiamo la tecnologia, Cook sta cercando di cambiare il modo in cui la tecnologia usa noi: non come consumatori da targettizzare, ma come persone da rispettare in tutta la loro diversità.

È una battaglia che va ben oltre i confini di Cupertino e che potrebbe ridefinire il ruolo stesso delle grandi aziende tech nella società. E se anche dovesse costare qualcosa in termini di consenso o di profitti immediati, Cook sembra determinato a combatterla fino in fondo. D’altra parte, come lui stesso ha detto una volta: “Fai ciò che è giusto e le cose buone accadranno“.

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