Era un giorno di luglio, il 18 per la precisione del 1968, quando un gruppo di figli della diaspora, a loro volta in diaspora, decisero di mettersi in proprio. E di fondare un’azienda chiamandola Integrated Electronics Corporation, in breve Intel Corp.
I loro nomi erano Gordon E. Moore (un fisico e chimico) e Robert Noyce (anche lui fisico e co-inventore del circuito integrato). I due avevano deciso di lasciare Fairchild Semiconductor, l’azienda di transfughi degil Shockley Semiconductor Laboratory (fondata da Wililam Shockley nel 1956 come divisione della Beckman Instruments di Mountain View, in piena Silicon Valley) che avevano fondato nel 1957.
I “traditori” di Shockley erano in realtà una pattuglia di talentuosi: Julius Blank, Victor Grinich, Jean Hoerni, Eugene Kleiner, Jay Last, Sheldon Roberts e, appunto, Gordon Moore e Robert Noyce. Fairchild era nata con l’idea di offrire agli otto la possibilità di costruire transistor in silicio basati sul germanio, sfuggendo dalle grinfie del difficile rapporto con Shockley. Il lavoro procedeva bene, il valore cresceva ma le possibilità di innovare e di gettarsi verso nuovi settori e nuove modalità produttive erano limitate dalla struttura che si era ricreata dentro Fairchild. Ecco dunque perché Moore (il papà dell’omonima legge) e Noyce avevano desiderio di tradire anche i traditori e mettersi in proprio.
Intel nasceva con l’ambizione di trasformare il mercato dei semiconduttori: memorie e processori. In più di un senso si può dire che ci sia riuscita. Dapprima con il business delle Sdram, le memorie statiche ad accesso casuale, e poi con quello dei microprocessori. Anzi, del primo microprocessore del 1971, che tanto ha dato alla compagnia americana in termini non solo e non tanto di primato tecnologico quando di possibilità di dominare il futuro mercato degli home computer (i computer per gli hobbysti fra i quali c’erano anche Steve Jobs e soprattutto Steve Wozniak) e poi dei personal computer.
Molto si è detto sull’opportunità epocale che venne concessa al giovane Bill Gates quando Ibm accettò di licenziare l’Ms-Dos su tutti i suoi nuovi P.C., i personal computer che l’azienda di Armonk aveva definito come standard nel 1981. In realtà molto ancora si potrebbe dire sulla scelta tecnologica che Ibm fece, assicurandosi due fornitori di tecnologie di base (per evitare i rischi dell’antitrust, come in tempi recenti è accaduto) per aver selezionato prima Intel e poi Advanced Micro Devices.
Il mercato dei processori, che Intel (come in seguito anche Commodore) aveva inseguito nella speranza di dominare il nascente mercato dei gadget elettronici, dagli orologi intelligenti alle calcolatrici tascabili, era finito saldamente in mano ai produttori asiatici del Giappone. Quello del Personal computer invece si trovava ad essere la grande opportunità per costruire una posizione dominante che avrebbe potuto costruire il valore e la solidità dell’azienda. E lo fece nella forma del “Wintel”.
Con questa formula si intende l’alleanza strategica, in parte formalizzata e in parte desumibile per “facta concludentia”, tra Intel e MicrosofT: l’una presentava una nuova generazione del suo sistema operativo e l’altra aveva subito pronto il processore adatto a sfruttarlo al meglio, e al contrario. Una volata il cui ritmo era scandito da quella geniale trovata di marketing che è la “legge empirica” rilevata da Moore: ogni 24 mesi, poi corretti in 18, raddoppia il numero degli integrati, ne diminuisce la dimensione e ne cala anche il prezzo. Una marcia inarrestabile, i cui limiti fisici si vedono solo adesso, quando gli elettroni imbizzarriti schizzano fuori dalle corsie al di sotto dei 30 nanometri, craendo disturbi e instabilità e aprendo la strada a una nuova e coraggiosa generazione di processori a centri di calcolo multipli e paralleli.
La storia fino ai multicore è lunga e costellata anche di successi meno appariscenti ma non per questo meno sostanziali: le memorie flash, i processori embedded per palmari e telefonini, le interfacce di rete, i chipset delle schede madri, i chip per i Bluetooth e per i sistemi Wi-Fi soprattutto nello standard meno simpatico al mercato, l'”A”. Tanta tecnologia che Intel, come la sua controparte software Microsoft, ha sempre realizzato senza andare direttamente a competere con i singoli produttori se non pontendosi come fornitore e acceleratore di mercato al principio dei cicli tecnologici e industriali.
Intel, pur duramente colpita dalle cause degli anti-trust di mezzo mondo, ha guadagnato nel tempo un vantaggio tecnologico sulla ricerca e la produzione che difficilmente i suoi competitor riusciranno a colmare. Anche con acquisizioni strepitose e spostando la frontiera del calcolo dal processore alla scheda video (settore in cui Intel è relativamente più debole), il vantaggio in termini di ricercatori, di spesa per la ricerca, di investimenti nelle fabbriche, di proiezione delle roadmap (che hanno convinto persino Steve Jobs a saltare sul carro di Intel abbandonando il carrozzone di Ibm e Motorola grazie ai più razionali rapporti consumo/potenza delle Cpu di Santa Clara) è oggettivamente enorme. Gigantesco.
Adesso, come sarà l’Intel del futuro, dopo aver passato la guida di Ceo dalla personalità molto diversa (Prima i fondatori, poi Andy Grove, impiegato numero tre, e adesso l’attuale Paul Otellini) e le sfide di un mercato che chiede prodotti sempre più miniaturizzati, economici, verdi, performanti, flessibili?
La sfida del calcolo parallelo per Intel è forse quella più facile, visto che le difficoltà di progettazione rispetto alle generazioni precedenti di Cpu a “cuore unico” non sono proporzionalmente difficili quanto il passaggio per gli sviluppatori di software che passano da ambienti non parallelizzati a quelli parallelizzati. E la “puntura” che negli scorsi anni la adesso claudicante Amd del messicano Hector Ruiz è riuscita a dare alla ricerca e alla voglia di innovare di Intel è stata la benvenuta.
Parecchi anni fa uno dei personaggi che spesso infestano il sottobosco italiano, aveva scritto un popolare libercolo (da cui fu tratta anche una fiction) intitolato “I miei primi quarant’anni”. Una finta debuttante che cercava anche con il lavaggio della mente dei più semplici di rimediare a quello che la cosmesi non riusciva più a garantirle. Oggi, con tutt’altro spirito e potenza, una delle corporation più grandi nate nel Dopoguerra sta mettendo il punto ad una data simbolica e si appresta a continuare la sua strada per la crescita. Intel fattura più di 38 miliardi di dollari l’anno, con utili operativi per 8,2 miliardi e entrate nette per 7 miliardi. Occupa direttamente più di 86mila persone, ha una trentina di fabbriche sparpagliate in tutto il mondo e altrettanti centri di ricerca. La sua sfida al futuro passa attraverso un delicato mix di politica industriale “old style” e raffinata ricerca di frontiera. Il suo obiettivo è influire e costruire più che può il nostro futuro. Buon compleannno, Intel.