I subappaltatori Apple non sembrano ben disposti a trasferirsi negli USA e questo non tanto per mancanza di volontà, piuttosto per precise ragioni economiche del tutto prevedibili, ma non solo. Così rischia di naufragare ancora prima della partenza il richiamo del neopresidente eletto: in più occasioni Donald Trump ha detto chiaramente di volere riportare il lavoro in casa, sia durante la sua campagna elettorale, sia dopo la votazione.
Il presidente eletto, lo ricordiamo, aveva attaccato Apple indicandola come esempio negativo giacché negli ultimi venti anni ha spostato praticamente l’intera produzione in Cina e in altri paesi orientali. La complessa ragnatela di fornitori di Cupertino, un insieme di aziende che non comprende solo Foxconn (la più disposta ad ascoltare, anche se a malincuore, le proposte USA), non sembra intenzionata a lasciare il territorio.
Apple ha un indotto che dà lavoro a 1,6 milioni di persone in venti paesi. Molti fornitori hanno peculiarità uniche, non semplici da ricreare dall’oggi al domani negli USA. Digitimes spiega che uno dei fornitori di Cupertino per le cover in vetro è ad esempio la cinese Lens Technology, azienda che vanta 70.000 dipendenti, tutti con meno di 45 anni; una realtà diversa da quella tipica USA dove il personale di questo tipo di realtà è mediamente più anziano. Oltre ai costi salariali più elevati, i dipendenti statunitensi sono riluttanti ad accettare orari di lavoro variabili.
Una catena di approvvigionamento Apple che si trova a Shenzhen spiega che per quanto riguarda la produzione dei telefoni cellulari in particolare, la Cina mette a disposizione filiere complete, con aziende specializzate in display, lenti, pannelli touch, circuiti stampati flessibili (PCB), batterie, assemblaggio. I fornitori sono in grado di rispondere e adattarsi velocemente alle richieste dei produttori. Per plasmare una qualsiasi case metallico in grandi quantità, a Shenzhen bastano ad esempio dieci giorni: un’operazione dello stesso tipo in USA richiederebbe almeno un mese.