Un anno. Trecentosessantacinque giorni da quando è scomparso Steve Jobs. Il co-fondatore di Apple e leader del mercato dell’innovazione ha lasciato un’azienda florida che in un anno è cresciuta ancora di più, anche se tra mille problemi non ultimo dei quali quello legato alle mappe, secondo i critici non all’altezza della fama dell’azienda. Ma non ha lasciato solo questo.
Il vostro cronista ha tra le mani l’iPhone 5, come pochi altri giornalisti selezionati in Italia, e lo sta usando da alcuni giorni. È l’ultimo iPhone pensato con la collaborazione di Steve Jobs, a quanto pare. Calcolando i tempi necessari allo sviluppo di un prodotto (circa tre anni), questo iPhone era già in stato di avanzata progettazione quando Jobs stava terminando la sua parabola terrena. È l’ultimo telefono sul quale abbia espresso i suoi pensieri e dubbi, i suoi desideri e le sue priorità. Perché alla fine questo è stato il lavoro di Steve Jobs negli ultimi anni della sua vita: occuparsi di quello straordinario prodotto che è Apple e il suo iTeam, da lui assemblato giudiziosamente e con attenzione negli ultimi anni.
La vita di Steve Jobs è stata strana. Piena di contraddizioni, quasi come se la vita ci lanciasse contro di nuovo e di nuovo e ancora, di nuovo, le stesse cose, gli stessi problemi. Fino a quando non abbiamo capito e non li superiamo. Pensate a Jobs. La vulgata lo presenta come un ragazzino ribelle, un contestatore che si rifiuta di studiare, che abbandona l’università, viaggia per l’India alla ricerca di se stesso, che cerca di scoprire il conforto all’angoscia esistenziale più profonda (l’uomo ha una sensibilità che poche volte è stata chiaramente discussa) attraverso le filosofie e le religioni orientali, oltre che con la sperimentazione lisergica caratteristica degli anni sessanta e settanta in California. È figlio del suo tempo e pare essere un figlio ribelle, iracondo, odioso, che maltratta i dipendenti, “ruba” le idee a destra e manca, che viene addirittura cacciato dalla sua stessa azienda, neanche trentenne, reo di averla portata al successo ma di non essere in grado di dare quelle sicurezze e quelle prove di maturità richieste dagli azionisti.
Quanto di più falso si potrebbe dire e scrivere riguardo a Steve Jobs? Ah, se bastasse urlare improperi ai dipendenti e fare qualche scenata, magari girando vestiti come hippie di mezza età, per creare Apple, l’azienda con la più grande capitalizzazione al mondo. Troppo facile spiegarla così, troppo facile liquidare così Steve Jobs. Walter Isaacson, il biografo di Jobs nonché illustre e titolato giornalista, l’ha fatto: sarà questo il peccato mortale che segnerà la sua carriera (salvo non riscriva una seconda edizione più appropriata della biografia ufficiale di Steve Jobs) perché ha voluto correre e semplicemente assemblare quel che pensava di aver registrato e capito di Jobs stesso. Quale sublime esempio di tracotanza e di presunzione, ma non dell’ammalato Jobs, bensì dello stesso Isaacson!
Torniamo al nostro uomo, che giusto un anno fa oggi è mancato con un triplice sospiro raccontato dalla sorella con commozione e quella forma di disincanto che circonda e ovatta la coscienza di chi ha appena perso per sempre qualcuno di caro. Torniamo sulla sua figura e non sui fiumi di inchiostro malmostoso e traboccante fiele che sono stati versati sul suo nome e sulle sue spoglie in questi anni. Un odio prefabbricato e in altri casi un eccessivo, quasi maniacale amore, che serve poi come cardine per girare di nuovo la porta dell’odio in faccia alla Apple di oggi, quella guidata da Tim Cook, quella “condannata a sbagliare anche quando fa bene”.
Steve Jobs non è stato un uomo semplice né banale. Non era un odiatore, non era un iracondo, non era un sempliciotto americano affascinato dalle filosofie orientali, non era un maghetto capace di ipnotizzare le folle, alla ricerca del prossimo dollaro da guadagnare. Se Steve Jobs e Apple fossero stati imbevuti di egoismo, di autocompiacimento, di quella voglia di fregare il prossimo in tutti i modi possibili (quante aziende italiane, quanti imprenditori nostrani vengono in mente!) non ci sarebbe stata storia. Se non dai qualcosa, non ricevi niente. E Apple ha dato molto perché Steve Jobs ha costruito un’azienda attorno a valori unici, che sono il primo e più profondo movente della sua storia.
Il greco Eraclito diceva che “Panta rei”, tutto scorre. E Shissai Chozan nel “Discorso sull’arte dei demoni di montagna” (Tengu-geijutsu-ron) dice ancora più chiaramente: “L’uomo è un essere in movimento. Se non si muove nel Bene, necessariamente si muoverà nel Non-Bene”. Steve Jobs era consapevole che l’equilibrio è dinamico, che il moto è tutto, che il vuoto è vibrazione. E si è sempre mosso con passione e una capacità di comprendere ambiti sempre più ampi che sono degne di attenzione e studio. L’uomo ha definito cosa intendiamo per innovazione, ha insegnato cosa fare e cosa non fare, ha costruito paradigmi nuovi o comunque considerati criticabili: avete presente cosa vuol dire costruire la più grande azienda al mondo basandola sui prodotti e non sui clienti o sui servizi? Provate a farlo voi. Provate a proporlo nel vostro business plan e vedrete quanti vi diranno che è il cliente che deve stare al centro, che è il servizio la cosa importante, che il prodotto è solo una conseguenza.
Steve Jobs ha segnato la sua strada muovendosi su poche regole che i suoi più fedeli esegeti hanno cercato di raccogliere e canonizzare. Ha sempre innovato, rifiutandosi di fare qualcosa solo perchè “doveva” farla. Ha sempre voluto capire e calcolare i tempi con i quali portare una innovazione sul mercato: né troppo presto né troppo tardi. Ha sempre cercato di aprire un dialogo con i suoi dipendenti e i suoi partner e clienti per mostrare cos’è quello che veniva fatto. Ha sempre cercato l’unità, non l’eccesso di tecnologia da un lato né l’eccesso di design industriale o di arti liberali dall’altro. C’è riuscito alla grande. Ma i segni c’erano tutti da ben prima del suo conclamato successo
Lo studente svogliato, il ribelle che voleva mettere la bandiera da pirata sopra la palazzina dove lavorava il team che ha creato il primo Macintosh è stato un lavoratore indefesso, un uomo dalla visione straordinariamente precisa e dettagliata oltre che unica, una sorta di veggente. Ha disegnato buona parte del futuro, del nostro futuro, utilizzando la tecnologia come leva e facilitatore, ma non si è limitato (come fa la concorrenza coreana) a vomitare tonnellate di apparecchi luccicanti sul mercato. Ha lasciato un segno nella storia, una tacca nel nostro universo. Il mistero dell’uomo, la sua vita privata, il rapporto con la moglie e i figli, con i genitori adottivi e gli amici più cari sono qualcosa che appartiene allo Steve Jobs privato e di cui sappiamo relativamente poco o niente. E sarebbe meglio niente.
Invece, dello Steve Jobs pubblico, dell’imprenditore e del capitano d’impresa, sappiamo già molto o moltissimo, ma ci accontentiamo di ascoltare poco, sempre le solite cose. I gossip, le critiche di chi oggi dice di essergli stato particolarmente vicino. Ma Steve Jobs, la sua capacità di far succedere le cose, la sua caparbietà nel portare avanti la sua visione e la bravura e attenzione nello scegliere le persone con cui lavorare (migliaia di colloqui di assunzione, una quantità di tempo enorme investita in quella che Jobs ha più volte detto essere la funzione più importante di un imprenditore: trovare i collaboratori migliori, i più giusti) oltre a uno straordinario talento per la negoziazione — che ci sta sempre bene — sono fatti sotto gli occhi di tutti, che avete letto chissà quante volte.
Allora per una volta, per un giorno, almeno nel giorno in cui si ricorda Steve Jobs a un anno dalla sua scomparsa, non ascoltate chi vi ricorderà che era un tiranno e che i suoi dipendenti avevano il terrore di prendere l’ascensore con lui per paura di essere licenziati e magari perché puzzava dato che come hippie non si lavava neanche perché non credeva nel sapone. Non fatevi prendere in giro. Lasciamo ai mediocri e al loro tempo, alle loro invidie questi pensieri. Spostiamoci più in alto, dove si trovava Jobs.