Ogni anno che passa sono sempre di più le persone che non conoscono Steve Jobs. È logico che sia così: il tempo passa e gli uomini anche. Nel caso di Jobs, sono 14 anni da quando è scomparso: è normale che ci sia chi non lo ricorda più. Però qui non parliamo del 2011, l’anno della sua scomparsa. Bensì del 1983, quando la maggior parte delle persone considerava i computer come ingombranti strumenti da ufficio.
All’epoca, invece, un ventottenne Steve Jobs parlava già di dispositivi portatili che avrebbero rivoluzionato la comunicazione globale. Sembrava fantascienza e invece era la visione lucida di un precursore, un imprenditore visionario (non usiamo questa locuzione con leggerezza) che aveva chiaro dove voleva andare e stava costruendo il percorso per arrivarci. Non solo con la tecnologia ma anche con il design. Perché il rapporto tra informatica e società era la cosa più grande che stava succedendo nel nostro tempo, anche se molto ancora non se ne erano resi conto. E forse neanche oggi.

Era il 1983. Steve Jobs era stato chiamato alla International Design Conference di Aspen in Colorado. Devanti a una platea di designer, architetti, grafici e artisti descriveva computer delle dimensioni di un libro, connessi senza fili e dotati di interfacce intuitive. Quarant’anni dopo, quei concetti visionari sono diventati così comuni che li diamo per scontati: smartphone, tablet, cloud computing e intelligenza artificiale fanno parte della nostra quotidianità.
Il discorso non è andato perduto. Invece, è alla base del documentario che raccoglie questi momenti che definire profetici vuol dire sminuirli: “The Objects of Our Life”. È stato proiettato lo scorso 6 aprile alla Triennale di Milano durante la Design Week, catalizzando l’attenzione di designer, tecnologi e cultori della storia dell’innovazione. E ha aperto un dibattito al quale ha partecipato, oltre al direttore del Museo del Design italiano della Triennale, Marco Sammicheli, e a Sarah Douglas, consulente dello Steve Jobs Archive, anche la Founding Executive Director dello Steve Jobs Archive, Leslie Berlin.

“Nel video si vede il suo incredibile entusiasmo”, ha detto Leslie Berlin sul palco durante il dibattito seguito alla proiezione. “È solo ventottenne e salta fuori dallo schermo. Si muove avanti e indietro tra tecnologia e qualcosa che la gente ama e che vuole usare”. Nel filmato, Jobs ha un’energia contagiosa mentre parla di un futuro in cui i computer sarebbero diventati “strumenti per potenziare la mente umana” – la famosa metafora della “bicicletta della mente”. Questa visione, all’epoca rivoluzionaria, proponeva un radicale cambio di paradigma: la tecnologia non come fine a sé stessa, ma come mezzo per amplificare le capacità umane in modo intuitivo e naturale.
L’evento milanese ha messo in luce quanto la visione di Jobs trascenda i confini temporali, risultando sorprendentemente attuale anche nell’era dell’intelligenza artificiale generativa e della realtà aumentata. Il dibattito ha evidenziato come l’approccio di Jobs incarni perfettamente la filosofia del design italiano: forma e funzione indissolubilmente legate, semplicità come massima raffinatezza. “I designer italiani sono stati i primi che Steve Jobs ha amato e conosciuto”, ha detto Berlin. “Quando è venuto in Italia nel 1981 per una conferenza chiamata ‘The Italian Idea’, era molto intrigato da quello che veniva fatto e cattura una grande gioia”.

La profezia dell’era post-PC
Nel documentario, Jobs parla con straordinaria precisione di come i computer sarebbero diventati sempre più piccoli e portatili, fino a trasformarsi in dispositivi personali indossabili. “Avremo computer delle dimensioni di un libro, che potrete portare con voi, che si collegheranno via radio a una rete elettronica più grande, dove risiederanno le informazioni“, dice nel 1983, descrivendo con sorprendente accuratezza quello che sarebbe diventato l’iPad con WiFi quasi trent’anni dopo.
La sua premonizione non si limitava all’hardware, ma si estendeva al software e ai servizi che oggi chiamiamo “cloud computing”: “Potrete accedere a database, biblioteche, e controllerete il vostro intero ambiente da questo dispositivo portatile“. Questa visione anticipava non solo prodotti specifici, ma un intero ecosistema digitale interconnesso, quello che oggi chiamiamo Internet of Things.

Il dibattito alla Triennale ha sottolineato come Jobs avesse compreso, prima di chiunque altro, che l’interfaccia utente rappresentava la chiave per democratizzare la tecnologia. “Non era un venditore, condivideva un entusiasmo per qualcosa che amava veramente”, ha detto Berlin durante l’evento.
Mentre i suoi contemporanei si concentravano sui megahertz e sulla capacità di memoria, Jobs parlava già di esperienze d’uso, di come la tecnologia dovesse scomparire per lasciare emergere solo la sua funzione. Una filosofia che ha guidato la progettazione dell’iPhone: un dispositivo in cui l’hardware si dissolve e rimane solo l’esperienza dell’utente, con un’interfaccia così intuitiva che un bambino può usarla senza istruzioni.
Forse ancora più sorprendente è stata l’intuizione di Jobs riguardo all’intelligenza artificiale, un campo che all’epoca muoveva i primi passi tra scetticismo e aspettative irrealistiche. “I computer possono analizzare milioni di bit di informazioni, trovare pattern e aiutarci a prendere decisioni migliori“, spiegava nel filmato, anticipando il machine learning e i sistemi di raccomandazione che oggi guidano Netflix, Spotify e Amazon.
Ma la sua visione dell’AI conservava sempre una dimensione profondamente umana: non macchine che sostituiscono le persone, ma strumenti che ne amplificano l’intelligenza e la creatività. Un approccio che oggi, nell’era di ChatGPT e Gemini, appare illuminante e in contrasto con chi teme l’automazione come minaccia all’umanità.

L’eredità di un pensiero rivoluzionario
Lo Steve Jobs Archive, presentato durante l’incontro milanese, svolge un ruolo cruciale nel preservare e diffondere questa visione anticipatrice. “Per noi la cosa più importante dell’archivio non sono le cose ma le idee che hanno reso le cose possibili”, ha detto Berlin. Oltre ai filmati storici, l’archivio ha pubblicato “Make Something Wonderful”, una raccolta di discorsi, interviste e corrispondenze personali di Jobs disponibile gratuitamente online. Il libro, progettato da LoveFrom, lo studio fondato da Jony Ive, rappresenta una finestra privilegiata sul processo creativo di Jobs, sul suo modo di concepire la tecnologia come punto d’incontro tra ingegneria e discipline umanistiche.
Il dibattito alla Triennale ha evidenziato anche l’approccio di Jobs al design come fattore di differenziazione in un mercato dominato dalle specifiche tecniche. “Lui comunicava solo le cose importanti, non quelle che non servivano“, ha detto Berlin, sottolineando come questa semplicità comunicativa riflettesse la sua filosofia di progettazione.
La lezione per i designer contemporanei è chiara: la vera innovazione non sta nell’aggiungere funzionalità, ma nel distillare l’essenza di un prodotto, eliminando tutto ciò che distrae dall’esperienza fondamentale. Un principio che ha guidato il design di prodotti iconici come l’iPod, con la sua rivoluzionaria interfaccia basata sulla rotella cliccabile, e che continua a influenzare il design contemporaneo ben oltre i confini della tecnologia.
Se ci domandiamo quanto dell’innovazione tecnologica degli ultimi quattordici anni è stata genuinamente rivoluzionaria e quanto invece è stata solo l’implementazione graduale di idee che Jobs aveva già delineato la risposta è sorprendente. L’intelligenza artificiale generativa, la realtà aumentata, i dispositivi indossabili sembrano tutti evoluzioni naturali del paradigma che Jobs aveva anticipato: tecnologia che scompare nell’uso quotidiano, interfacce che si adattano all’uomo e non viceversa, esperienze digitali che arricchiscono la vita reale senza sostituirla. Anche l’enfasi contemporanea sulla sostenibilità e sulla longevità dei prodotti tecnologici trova eco nella visione di Jobs di creare oggetti non solo funzionali, ma emotivamente significativi e durevoli.
Il lascito più importante di Steve Jobs, come ha sottolineato il dibattito alla Triennale, non sono i prodotti o l’azienda che ha creato, ma una visione della tecnologia al servizio dell’esperienza umana che continua a definire il nostro rapporto con il digitale. In un’epoca in cui il dibattito tecnologico oscilla tra tecno-ottimismo acritico e distopie catastrofiste, riscoprire il pensiero di Jobs attraverso lo Steve Jobs Archive offre una terza via: una tecnologia consapevole, umanocentrica e progettata con intenzionalità. Una visione che, quarant’anni dopo, rimane non solo attuale, ma necessaria per navigare le sfide e le opportunità dell’era digitale con saggezza e creatività.
A questo indirizzo la storia di come nacque Apple. Seguite i link per tutti gli articoli dedicati a Steve Jobs. Per i migliori libri su Apple e il suo co-fondatore è possibile partire da qui.