Spotify abbandona la sua infrastruttura di rete con server sparsi in data center localizzati in varie parti del mondo e si appoggerà alla Cloud Platform di Google. Il passaggio richiederà tempo (Spotify vanta 75 milioni di utenti), verifiche e si prevede che la transizione verso la nuova piattaforma richiederà un anno. L’operazione è complessa ma è stata definita necessaria perché l’approccio finora usato non consente di attuare migliorie fondamentali per il buon funzionamento del servizio.
“Finora”, spiegano gli sviluppatori, “abbiamo sfruttato il classico approccio: acquistare o affittare spazi in data center, hardware per server e strutture di rete più vicine possibili ai nostri clienti”. “Quest’approccio ha consentito di fornire musica istantaneamente, ovunque vi troviate nel mondo”. “Con il crescere delle attività, dei mercati, delle funzionalità disponibili, riuscire a tenere il passo per esigenze su grande scala richiede maggiore attenzione e sforzi”. “Da bravi ingegneri ci siamo chiesti: abbiamo bisogno davvero di tutto questo? Per molto tempo abbiamo pensato di sì. Gestire data center in proprio è complicato, alcuni servizi essenziali del cloud non offrono il livello di qualità, performance e costi che rendono l’opzione conveniente” spiegando come si sono resi conto che era necessario affidarsi a chi ha competenze e infrastrutture appropriate: Google.
Big G possiede le infrastrutture di cui Spotify ha bisogno, mette a disposizione funzionalità di batch processing, analisi dati e funzioni avanzate che consentono di eseguire query complesse su enormi quantità di dati in pochi minuti, un insieme di servizi che presentano vari vantaggi rispetto alla soluzione con server gestiti in proprio. Non è chiaro perché Spotify abbia scelto le soluzioni di Google e non quelle di AWS (Amazon) o Azure (Microsoft) soluzioni scelte da Netflix e altri.