Lo spot “Crush” per il lancio degli iPad Pro M4 2024 ha sollevato un vespaio di polemiche e Apple l’ha ritirato, come abbiamo raccontato qui. Ha toccato, anzi ha letteralmente schiacciato, un tasto dolente dell’immaginario, è stato interpretato nel peggiore dei modi possibili: la simbologia anti-umana con la distruzione sotto una pressa di tutto quello che amiamo e che ci rende persone, per trasformarlo in una tavoletta di alluminio e vetro.
Ma era veramente quello lo spot che abbiamo visto? Oppure dentro ci sono tante altre cose che, come in un esercizio di analisi collettiva, mostrano qualcosa di più complesso e importante di tutti noi?
La pubblicità è l’anima della cultura
Pariamo da due concetti di fondo. Il primo è che tecnicamente lo spot di Apple è molto ben fatto, come al solito, verrebbe da dire. E che fa il suo lavoro egregiamente. Il difetto più grande non è a livello simbolico ma piuttosto, se proprio vogliamo trovarne uno, stilistico: la spettacolarità fine a se stessa ha finito per risuonare più del messaggio che voleva comunicare: dentro l’iPad ci sta un mondo di contenuti e strumenti di produzione di questi contenuti.
Invece, anche dal punto di vista commerciale, è uno spot perfetto, tanto che ne stiamo parlando in articoli indignati, con dichiarazioni sui social e condivisioni arrabbiate o ironiche. “Purché se ne parli”: perfetto, no? Il secondo è che la nostra società non sta affatto bene. Anzi, sta molto male. E sarebbe semplicistico riassumere tutto dicendo che è solo una questione di avere visto il digitale soppiantare l’analogico. Sarebbe un pensiero molto poco divergente, che va poco in profondità.
C’è ovviamente di più e il motivo va ricercato da una parte nei cambiamenti culturali che stiamo attraversando, dall’altra nel valore simbolico sia della pubblicità in quanto tale che di Apple e dei suoi strumenti in particolare, ma anche più in generale nel modo con il quale come società stiamo metabolizzando critiche, dissenso, accelerazioni, spettacolarizzazioni. (Hint: male, molto male: con il conformismo della “cancel culture”)
La pubblicità è simbolo
La pubblicità è una cosa complicata. È un genere, con miriadi di sottogeneri, ed esprime contenuti e significati estremamente densi. Gli spot, la forma “principe” di una campagna pubblicitaria, sono considerati anche delle prove d’artista. L’equivalente delle seggiole per chi fa il designer. Ci sono premi, riconoscimenti, interi corsi universitari dedicati all’analisi, allo studio e alla valutazione degli spot pubblicitari.
Apple, in questo settore, ha una tradizione molto grande, che fa parte del DNA stesso dell’azienda. Apple comunica molto, lo fa da sempre e lo fa in maniera molto riconoscibile e “forte”. Alcune sue campagne (lo spot “1984” e la campagna “Think Different”) sono considerate capisaldi del settore, grazie anche alla capacità dell’azienda di dialogare con le agenzie che hanno curato nel tempo le campagne. Soprattutto, Chiat/Day e poi TBWA.
Negli spot il cliente è molto presente: nel caso di Apple, fino a che l’ha guidata Steve Jobs era lui stesso a coordinare anche questo tavolo di lavoro. Con Tim Cook è emerso un altro responsabile, che si è scusato assumendosi la colpa di uno spot “venuto male” e poi ha ritirato il tutto.
Crush di Apple è uno spot ben fatto
La pubblicità di Apple è tenicamente molto ben fatta. Il messaggio è semplice e intuitivo: l’iPad prende il posto in maniera simbolica di quasi tutte le cose che abbiamo attorno, dagli strumenti per consumare contenuti a quelli per produrli, da quelli analogici a quelli digitali. Gli schiaccia, li comprime, li riassume e li cristallizza in un apparecchio straordinariamente leggero e potente. Dal design “unisex”, neutro, che scompare attorno a quello che viene mostrato sullo schermo
Questo aspetto viene mostrato con l’immagine di una pressa che schiaccia tutto, e con una abbondanza di dettagli resi possibili dalla capacità visiva sia della creatività dei pubblicitari, sia dalla loro capacità produttiva che dall’uso di effetti speciali “in camera”. Lo spot, come ho scritto sopra, esagera, ma lo fa perché segue una visione fortemente estetizzante e un discorso narrativo virtuosistico in corso a cavallo tra cinema, televisione e pubblicità su come deve essere uno sport della corrente iper-realistica.
Praticamente gli ultimi quindici anni di cinema e pubblicità stanno portando sia a livello contenutistico che simbolico sempre più “realtà” dentro lo schermo. Gli effetti speciali, le videocameere 8K, gli effetti in camera, i trucchi prostetici, lo stile narrativo e infine gli strumenti per la riproduzione (display, home theatre, cinema), con audio e schermi di qualità sempre maggiore (e dimensioni) hanno contribuito a queste cifre stilistiche che lo spot rispetta appieno.
La rincorsa di Apple
Apple ha già creato campagne “controverse”, in passato. Dai Lemmings che si gettavano dalla rupe (idea creativa sui pericoli del conformismo digitale, ma messaggio sbagliato perché c’è l’ombra del suicidio) alla campagna “Rip Mix Burn” (idea creativa di spiegare il flusso CD-iTunes-masterizzazione del mix-tape digitale su CD, messaggio sbagliato perché “istiga alla pirateria” secondo le major).
Soprattutto nell’era non-Jobs Apple di campagne “controverse” o semplicemente “non belle” (esteticamente) e “non buone” (commercialmente) ne ha fatte alcune, certo. Ma ha tenuto anche l’asticella straordinariamente alta. Con Jony Ive alla console del mix di design infuso su tutti i prodotti, si è visto l’aspetto estetico ma anche comunicativo di Apple cambiare. E diventare sempre più “fine a se stesso”.
Nel senso che, con Steve Jobs che spingeva sulle funzioni e gli usi, Ive spingeva sull’estetica e la bellezza. E lo faceva in tutti i campi, dai prodotti essenziali e straordinariamente “semplici”, minimalisti, alle campagne estetizzanti al massimo, inclusa la creazione di un genere di video lunghissimi con il voice-over dello stesso Ive che illustrava con il suo vocione (era timido e non voleva andare sul palco di Steve Jobs, ma poi i video li faceva con piacere) passo passo tutte le nuove tecniche di produzione. Pazzeschi quanto inutili.
Gli anticorpi della società
Questa volta lo spot di Apple ha “triggerato” un comportamento sociale diffuso che è legato a variabili molto diverse da quelle che potremmo immaginare. È l’esaltazione del “politicamente corretto”, che vuol dire totalmente privo di ironia (ci sta) ma anche di tolleranza rispetto alla libertà di mandare un altro messaggio di segno contrario a quelli mainstream (a presicndere dal tono, dalla rilevanza e dal messaggio stesso).
Oggi siamo nell’epoca della sensibilità per la disumanizzazione e spersonalizzazione. Le grandi multinazionali del tech sono i “cattivi” sul palco degli imputati a prescindere (e questo fa capire quanto sia stata strategica l’idea di Tim Cook di basare il futuro di Apple sui diritti come inclusione, accesso, privacy, ecosostenibilità).
Sul piatto ci sono moltissime cose: paura della intelligenza artificiale e danni provocati dalla digitalizzazione in termini sia di lavoro (perdita di posti, demansionamento, obsolescenza delle persone) che di vita privata (dipendenza dai dispositivi, eccesso di uso dei social, manipolazioni di vario genere tra fake news, deepfake e cyberbullismo), più la strisciante (perché non riconosciuta pubblicamente con la dovuta attenzione, anche se purtroppo estremamente reale) crisi di depressione e altre malattie mentali degli adolescenti causata dal mix lockdown e dispositivi digitali.
Infine, le correnti culturali di oggi, da un lato il minimalismo e dall’altro la retro-cultura che mira al recupero simbolico di tutto quello che è “antico” e “pre-digitale”: dalle fotocamere a pellicola agli album in vinile e le musicassette, passando per una teoria infinita di altri oggetti “che furono”.
Siamo super moderni, vogliamo bluetooth, domotica e wifi ovunque, non ci schiodiamo di un millimetro dai telefonini, eppure pontifichiamo su quanto sia bello suonare la chitarra acustica in riva al lago facendo digital detox, bevendo birra artigianale, mangiando vegano per non compromettere l’ambiente o uccidere altri esseri viventi, vestendoci sostenibile (morte al fast-fashion!) e godendo delle cose semplici e belle della vita, tutto slow cioè con tutto il tempo del mondo, tanto food ma sano genuino e tradizionale (anzi “vero”), magari parlando dei nostri nuovi tatuaggi tribali o prendendoci cura delle nostre lunghe barbe.
Il boomerang della pubblicità di Apple, che in realtà ha perfettamente nel bersaglio proprio questo pubblico (tanto che gli oggetti simbolici schiacciati e riassunti nell’iPad sono proprio quelli che li descrive) ha sbagliato la meccanica. No, non perché dovesse andare all’indietro, ma perché semplicemente non ha pensato al tipo di risposta che la rete ha costruito negli ultimi anni. Violentissima, intitolata, senza mezze misure, giacobina, da riunione del comitato popolare e da cancel culture. Una cultura totalmente autoreferenziata e incapace di pensiero astratto, che amputa tutte le dita che puntano alla Luna perché “non è educato indicare”.
Il vero mostro non è Apple con il suo spot, ma la società in cui viviamo. E lo spot fa perfettamente il suo lavoro, creando lo scandalo che lo dimostra. Nell’era del commercio la pubblicità è una forma di arte e di critica sociale contro il conformismo della società. E si è visto quanto spazio trova: zero.
Quello che c’è da sapere sui nuovi iPad Pro 2024 con chip M4 e schermo OLED in questo articolo di macitynet.