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Rivoluzione Apple, tra scommese perse e chi è in missione per conto di Dio

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C’era da aspettarselo, non poteva durare per sempre. Ma adesso bisogna piuttosto chiedersi se non sia per il meglio. L’annuncio di Apple, dato con un lungo comunicato stampa tutto in positivo sull’assunzione di nuove responsabilità da parte del pacchetto di mischia al comando dell’azienda, una serie di professionisti tosti scelti singolarmente da Steve Jobs e considerati tra i migliori al mondo, è comunque un annuncio negativo. Apple dice che due dei suoi manager, in particolare uno è Scott Forstall, un uomo-chiave, se ne vanno. E che all’interno dell’azienda ha vinto “l’altra parte”, quella capitanata da Jonathan Ive e da Bob Mansfield.

Ma l’istinto del cronista già da tempo era scosso e pizzicava: come un senso di ragno la domanda che veniva spontaneamente alla mente guardando l’evento speciale di Apple della scorsa settimana al California Theatre di San Jose era: “C’è Scott Forstall? Cosa sta facendo? Perché non è salito sul palco?”. Perché il figliuol prodigo, l’uomo caratterialmente più vicino a Steve Jobs anche se con difetti alquanto differenti (prima fra tutte l’abitudine di dare ai suoi collaboratori la responsabilità degli errori della sua divisione), è stato travolto dal karma di Steve Jobs ed è stato cacciato dall’azienda che ha contribuito a rendere grande. O forse cacciato no, forse – quando tra qualche mese leggeremo un “dietro le quinte” ragionato di qualche giornalista investigativo californiano (gli unici che abbiano accesso alle fonti in grado di dire tutto quel che c’è da sapere sulla vicenda) – scopriremo che è stato lui a voler cercare nuovi spazi.

Chi è stato sicuramente cacciato è invece l’uomo della catena degli Apple Store: quel John Browett che stava sostituendo da pochi mesi Ron Johnson e che si è invece trovato a peggiorare la situazione anziché mantenerla in positivo. Che sia stato “abbandonato” da Tim Cook dopo aver ricevuto il mandato di andare negli Store e spremere i clienti fino all’ultimo penny, oppure che fosse tutta una sua iniziativa, quel che appare chiaro è che era l’uomo sbagliato al posto sbagliato. Questa, se ce n’è una, è la responsabilità di Tim Cook e del consiglio di amministrazione che ha scelto Bowett come sostituto di Johnson.Ive JonathanPer il discorso su Forstall, le cose sono più complicate. L’uomo è riuscito a scommettere alla grande, aveva piani ambiziosi, ha cercato di dare un peso e una accelerazione al mondo iOS che nessun altro sarebbe riuscito a dare. In qualche modo ha creato la fase più barocca ed espressiva del sistema operativo, diventato oggi una specie di asso pigliatutto per Apple. Però, come abbiamo già osservato annunciando poco fa la sua uscita di scena, Forstall ha peccato di hybris, di tracotanza.

Con Siri, con iAds, con le mappe. Gli sarebbe mancato solo di essere responsabile anche di iCloud e avrebbe fatto poker. Scott Forstall si è dimostrato ambizioso, geniale ma fin troppo instabile ed esageratamente portato a scommettere, a non ascoltare mai gli altri. Tutte qualità ottime se sei Steve Jobs, ma se non lo sei, il pregio si trasforma in un difetto e corri il rischio di affondare. E Forstall si è affondato. Ha scommesso su se stesso, ha perso e paga il conto.

La sua uscita da Apple (che avverrà al rallentatore, dopo un periodo di un anno in cui continuerà a fare da consigliere di Tim Cook, con buona pace degli azionisti e del valore del titolo di Apple) può essere vista in due modi. Potrebbe essere l’inizio della fine oppure la mossa chiave che apre un nuovo corso ad Apple e finalmente fa venire fuori l’anima migliore dell’azienda.

Se fosse l’inizio della fine, lo sarebbe perché vorrebbe dire che Apple si pure persa, che la capacità di stare uniti, di far girare quell’iTeam fortemente voluto da Steve Jobs dopo soli dodici mesi non c’è più. Sarebbe una bruciante sconfitta, dimostrerebbe che gli essereìi umani sono sostanzialmente degli stupidi ambiziosi, incapaci di stare al loro posto e di fare il loro dovere per il bene della collettività.

Se invece è la mossa chiave che rilancia l’azienda con ancora più determinazione, lo vedremo analizzando quel che faranno gli uomini rimasti dentro Apple con le nuove deleghe. Bob Mansfield è la conquista più preziosa: il manager se ne stava andando in pensione non per stanchezza o avidità, ma per evidenti conflitti interni che la dipartita di Forstall è bastata a fugare. E assieme a lui, che deve dare il ritmo a una innovazione che ha saputo creare dal niente dal punto di vista hardware, c’è Craig Federighi, l’italoamericano che adesso guida entrambe le divisioni iOS e OS X. Mossa fondamentale: la divisione era più una lotta tra bande o una satrapia interna che da tempo non aveva più senso. Tra non molto vedremo una accelerazione del processo di trasformazione di entrambi i sistemi operativi che produrrà frutti molto interessanti.

Ma la cosa che intriga di più chi scrive, quel che appare sconvolgente per chi conosce il personaggio dopo averlo incontrato ormai da anni agli eventi di Apple, è che Jonathan Ive voglia più responsabilità e sia riuscito ad ottenerle. Il designer di Apple è anche l’unico, genuino portavoce del verbo di Steve Jobs “Less is more”, nel meno c’è il più. Il suo ruolo oggi è di bastione dell’ortodossia, di incarnazione della regola jobsiana. Non è Tim Cook l’uomo giusto per dare lo sguardo ai prodotti e decidere se sono pronti oppure no, se sono abbastanza semplici oppure no, se dietro si ha una nuova innovazione fondamentale ed essenziale o ci sono troppe cose barocche, inutili, ripetitive, fastidiose, potenzialmente pericolose.

Jony Ive prende il controllo dell’altro pezzo oltre il design che mancava: la Human Interface, la parte del lavoro di creazione delle interfacce e di design interattivo (come si chiama) che serve per dare interezza ai prodotti di Apple. Se avete avvertito una perturbazione nella forza, il senso di un errore che stava lentamente generandosi, adesso non dovete più temere. Ive ha il compito di riportare semplicità, linearità, essenzialità ed eleganza all’interfaccia di iOS e di OS X oltre che nelle forme degli apparecchi di Apple. Ci vorrà poco, pochissimo: sei mesi, otto al massimo un periodo nel corso del quale Ive, se vogliamo citare i Blues Brothers, sarà in missione per conto di Dio, là dove la divinità in questione sono da una parte l’eredità di Jobs e dall’altra parte i clienti abituati a pensare, come faceva il fondatore di Apple, che chiedono semplicità e linearità.

Chi scrive è un ottimista per natura. E vuole pensare che tra le due strade che la Apple di Tim Cook si è trovata di fronte sia stata scelta la più sana. E che la dipartita di questi manager, che il passaggio delle consegne al pacchetto di mischia rimanente, che la ricerca di un nuovo capo degli store, sia tutto per il meglio. Che le scelte che ha fatto Tim Cook siano state pensate non per annientare la diversità e il pensiero critico all’interno dell’azienda, ma per dare una spinta ulteriore e più sana al movimento già notevole di Apple. Non ci vorrà molto per valutarlo e questo sarà il tema dei temi nei prossimi due anni: se Apple deve combattere una battaglia davvero impegnativa in futuro questa sarà contro se stessa e i limiti che essa stessa si crea. Ma dopotutto non è così per tutti noi?
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