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Quando la tecnologia diventa strumento di potere nasce il colonialismo digitale

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Il colonialismo non è morto: ha solo cambiato pelle, trasformandosi in qualcosa di più sottile ma non meno pervasivo. Nell’era digitale, il controllo delle risorse non passa più attraverso l’occupazione fisica dei territori, ma attraverso il dominio delle infrastrutture tecnologiche, dei dati e delle piattaforme che governano la vita online di miliardi di persone.

Le nuove forme del dominio digitale

Il colonialismo digitale si manifesta in modi diversi ma interconnessi. C’è quello delle grandi piattaforme tecnologiche che estraggono valore dai dati degli utenti senza redistribuire i benefici nei territori di origine. C’è quello delle infrastrutture di rete, con i cavi sottomarini che seguono spesso le stesse rotte delle antiche vie commerciali coloniali. E c’è quello più sottile ma non meno importante delle risorse digitali, come i domini internet, che vengono sfruttati commercialmente senza alcun ritorno per le popolazioni locali.

Un esempio emblematico è quello del dominio .io, assegnato al Territorio Britannico dell’Oceano Indiano, del quale abbiamo già parlato diffusamente. Diventato popolare tra le startup tech per la sua associazione con “input/output”, genera profitti consistenti che non hanno mai beneficiato la popolazione delle Isole Chagos, espulsa dal proprio territorio negli anni Sessanta per far posto a una base militare americana. Ma questo è solo la punta dell’iceberg.

L’Africa digitale: il nuovo eldorado delle big tech

Il continente africano è diventato il terreno di caccia preferito delle grandi aziende tecnologiche. Google, Facebook e altre corporation stanno investendo miliardi in infrastrutture digitali, dalla fibra ottica ai data center. Ma questi investimenti seguono spesso logiche estrattive: le aziende occidentali controllano le infrastrutture, raccolgono i dati degli utenti africani e li monetizzano sui mercati globali, mentre le economie locali ricevono benefici limitati. I singoli praticamente nessuno.

Il caso più eclatante è quello dei cavi sottomarini. Dei quattordici principali cavi che collegano l’Africa al resto del mondo, dodici sono controllati da aziende occidentali o cinesi. Questo significa che il traffico internet del continente – e i preziosi dati che trasporta – passa attraverso infrastrutture controllate da potenze straniere, replicando vecchie dinamiche di dipendenza coloniale.

La lezione dell'internet africana per il resto del mondo
Mappa cavi sottomarini – SubMarineCableMap

La battaglia dei dati: il nuovo “oro digitale”

I dati sono stati definiti “il nuovo petrolio”, ma questa metafora nasconde una realtà ancora più complessa. Come le risorse naturali del passato, i dati vengono estratti dai territori del Sud globale per essere processati e monetizzati nelle economie avanzate. La differenza è che questa estrazione avviene in modo quasi invisibile, attraverso app e servizi che gli utenti utilizzano quotidianamente.

Le grandi piattaforme social, i servizi di cloud computing e le app di messaggistica raccolgono informazioni preziose sugli utenti africani, asiatici e sudamericani. Questi dati alimentano algoritmi di intelligenza artificiale e sistemi pubblicitari che generano miliardi di dollari di profitti, ma le economie locali vedono solo una frazione minima di questo valore.

La consapevolezza di queste dinamiche sta portando a una crescente richiesta di “sovranità digitale” da parte dei paesi in via di sviluppo. La Cina ha fatto da apripista con il suo “Great Firewall”, ma ora anche altre nazioni cercano di proteggere il proprio spazio digitale. L’India ha bandito decine di app cinesi, il Nigeria ha temporaneamente bloccato Twitter, e diversi paesi africani stanno introducendo leggi per il controllo dei dati.

Queste mosse verso la sovranità digitale non sono prive di contraddizioni. Se da un lato rappresentano un tentativo di resistenza al colonialismo digitale, dall’altro rischiano di frammentare ulteriormente la rete globale e, in alcuni casi, di legittimare forme di controllo autoritario sulla comunicazione online.

Le risposte locali: tra resistenza e innovazione

Non tutto è perduto, però. In Africa e in altre regioni del Sud globale stanno emergendo interessanti esperimenti di “tecnologia decoloniale”. Startup locali sviluppano soluzioni adatte ai contesti specifici, movimenti di base promuovono l’alfabetizzazione digitale, e alcuni governi investono in infrastrutture tecnologiche nazionali.

In Kenya, ad esempio, il sistema di pagamento mobile M-Pesa ha rivoluzionato l’economia locale ben prima che le big tech si interessassero ai pagamenti digitali. In India, l’infrastruttura di identità digitale Aadhaar, pur non priva di criticità, ha mostrato come un paese in via di sviluppo possa costruire sistemi tecnologici su larga scala.

Verso un internet più equo

La sfida per il futuro è costruire un’infrastruttura digitale globale che sia veramente equa e inclusiva. Questo significa ripensare non solo la governance di Internet, ma anche i modelli economici che lo sostengono. I domini come .io potrebbero essere gestiti in modo da beneficiare le comunità locali, come già accade per .tv di Tuvalu. Le infrastrutture di rete potrebbero essere sviluppate con maggiore partecipazione locale, e i dati potrebbero essere trattati come una risorsa comune anziché come proprietà privata delle corporation.

Ma soprattutto, significa riconoscere che la tecnologia non è neutra: porta con sé valori, potere e interessi economici. Solo affrontando apertamente queste dinamiche di potere possiamo sperare di costruire un futuro digitale che non replichi le ingiustizie del passato coloniale.

Il ruolo dell’Europa e delle democrazie

In questo scenario, l’Europa e le altre democrazie avanzate hanno una responsabilità particolare. Con il GDPR, l’Ue ha mostrato che è possibile regolare il potere delle big tech. Ma serve di più: occorrono iniziative di cooperazione digitale che aiutino i paesi in via di sviluppo a costruire le proprie capacità tecnologiche, senza cadere nella trappola di nuove dipendenze coloniali.

Il neocolonialismo digitale non è un destino inevitabile. Ma contrastarlo richiede consapevolezza, volontà politica e, soprattutto, un ripensamento radicale di come la tecnologia viene sviluppata, distribuita e governata a livello globale. Solo così potremo aspirare a un internet che sia davvero uno strumento di emancipazione e non di dominazione. Ma c’è di più. Perché stiamo entrando in un’epoca nuova, in cui il peso dell’intelligenza artificiale diventa preponderante. Anche dal punto di vista del neocolonialismo digitale.

La necessità di un nuovo patto digitale globale

L’avvento dell’intelligenza artificiale sta aprendo un nuovo capitolo nel colonialismo digitale. I modelli di AI vengono addestrati su enormi quantità di dati, spesso raccolti senza consenso informato dalle popolazioni del Sud globale. Questi sistemi, sviluppati principalmente nei laboratori delle big tech occidentali, codificano pregiudizi culturali e perpetuano disuguaglianze esistenti. Inoltre, il costo computazionale e ambientale dell’AI ricade sproporzionatamente sui paesi in via di sviluppo, dove vengono costruiti data center energivori e dove si estraggono le terre rare necessarie per l’hardware.

La soluzione a queste sfide richiede un nuovo “patto digitale globale” che ridefinisca le regole del gioco. Questo dovrebbe includere meccanismi di redistribuzione dei benefici economici generati dai dati, standard etici vincolanti per lo sviluppo dell’AI, e soprattutto un cambiamento nel modo in cui pensiamo alla proprietà e al controllo delle infrastrutture digitali. Il modello attuale, basato sul dominio delle corporation tecnologiche, non è sostenibile. È tempo di esplorare alternative più democratiche e inclusive, dal software open source alle infrastrutture di proprietà comunitaria, per garantire che la rivoluzione digitale porti benefici a tutti, non solo a una ristretta élite tecnologica.

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