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Jobs provò a produrre i Mac negli Stati Uniti ma fu un disastro

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Il New York Times racconta come anni addietro il CEO di Apple Steve Jobs avesse provato più volte a installare la cultura dell’industria manifatturiera nella Silicon Valley. Nel 1988 Jean-Louis Gassée, appena nominato presidente della divisione prodotti di Apple, con l’incarico di responsabile ingegnerizzazione e produzione, decise di passare due giorni per imparare in che modo l’azienda costruiva i prodotti, lavorando a una linea di produzione statunitense dell’azienda.

Steve Jobs era ammaliato dall’idea della catena di montaggio introdotta da Henry Ford e sfruttata dalle grandi industria automobilistiche di Detroit, e affascinato anche dalle capacità manifatturiere di aziende giapponesi quali Sony. Tentò di replicare il modello in California ma l’esperienza non si rivelò vincente ed è per questo che – questo il succo dell’articolo del New York TImes – oggi sulle scatole degli iPhone vediamo scritte del tipo: “Designed by Apple in California. Assembled in China.”

Nel 1983 Jobs supervisionò la costruzione di un avanzatissimo impianto dove erano costruiti i nuovi Macintosh. All’epoca ai giornalisti che avevano visitato in anteprima la fabbrica fu spiegato che la struttura, situata nella San Francisco Bay Area, non troppo lontana dal quartier generale di Apple, era talmente avanzata che la manodopera rappresentava il 2% del costo totale di realizzazione di un Macintosh. (Qui e nelle altre immagini alcuni fotogrammi del video d’epoca che presentava l’impianto).

Jobs provò a produrre i Mac negli Stati Uniti ma fu un disastro“Steve era profondamente convinto dal processo di fabbricazione giapponese” ricorda Randy Battat, giovane ingegnere elettronico che era arrivato in Apple per supervisionare la creazione di alcuni dei primi portatili. “I giapponesi erano declamati come maghi della fabbricazione. L’idea era di creare una fabbrica con un sistema di produzione pronta consegna e l’applicazione di metodologie e strumenti per eliminare tutte le cause radice dei difetti (Zero Difetti)”, idea che si rivelò “non positiva dal punto di vista commerciale”.

Jobs provò a produrre i Mac negli Stati Uniti ma fu un disastro

Gassée scoprì qualche anno dopo che la realtà dell’industria manifatturiera era molto diversa dall’idilliaco sogno originale dei primi pionieristici creatori dei personal computer. “Mi misi in ridicolo provando a incastonare un display nell’alloggiamento del computer con un cacciavite” ha ricordato Gassée in una recente intervista. Alla fine del turno, Gassée raccoglieva con una ramazza e spazzava le parti cadute dalla linea di produzione. “Era davvero vergognoso” ha riferito ricordando l’allora scalcagnato procedimento.

Jobs provò a produrre i Mac negli Stati Uniti ma fu un disastro

La fabbrica che costruiva i Macintosh fu chiusa nel 1992 perché non raggiunse mai i volumi di produzione immaginati da Jobs (le vendite dei Mac iniziarono a decollare anni dopo). I manager Apple si resero conto della necessità di appoggiarsi a filiere produttive in altre parti del mondo che offrono manodopera a basso costo e prevedono norme più permissive.

“Non abbiamo la cultura della manifattura” ha spiegato Gassée con riferimento alle aziende tecnologiche evidenziando l’assenza del “substrato culturale, della scolarizzazione, di apprendisti e subappaltatori” che renderebbero possibile la fabbricazione negli Stati Uniti.

Jobs provò a produrre i Mac negli Stati Uniti ma fu un disastro

Nel 1990 Jobs aveva provato ancora una volta a investire 10 milioni di dollari per creare una struttura che produceva le workstation Next. Come i Macintosh in precedenza, neanche i Next si vendevano in quantità tali da rendere fattibile la gestione dell’attività di assemblaggio nella Silicon Valley. Da quei fallimenti Jobs imparò la lezione. Tornato in Apple nel 1997, l’anno dopo chiamò Tim Cook nominandolo vice president responsabile worldwide operations.

Cook conosceva l’arte della filiera produttiva avendo prima lavorato per IBM e poi per Compaq. Apple, come altre aziende della Silicon Valley prima, aveva cominciato a esternalizzare la produzione. Dopo il boom dei vari innovatori dell’IT, molti produttori che avevano bisogno di semiconduttori e microchip, cominciarono a rivolgersi all’Asia per via del progressivo abbattimento del costo del lavoro, tendenza accelerata con il crescere delle aziende. “All’inizio della mia carriera, volavo continuamente in Giappone” racconta Tony Fadell, ex dipendente Apple noto per essere il “papà” dell’iPod e poi di Nest; “Successivamente cominciai a volare in Corea, Taiwan e Cina”.

Attualmente nella Silicon Valley esistono gruppi relativamente piccoli di forze-lavoro ma per le grandi produzioni il punto di riferimento è la Cina, dove una struttura che assembla iPhone impiega 450.000 persone. “Non è possibile riportare la fabbricazione qui” riferisce Andrew Hargadon, product designer della Mela che già nel 1990 creava i Powerbook Duo di Apple in Asia, evidenziando le complesse reti di fornitori che in Asia lavorano di concerto tra loro.

Donald Trump e altri esortano Apple a riportare l’industria manifatturiera negli USA ma è un compito non semplice. Non bastano tagli fiscali, politiche di semplificazione burocratica e misure protezionistiche: mancano competenze specifiche per non parlare dei costi del personale, di materiali e componentistica che obbligherebbe a innalzare i costi finali di un qualunque prodotto.

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