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Perché Apple ha da sempre un sistema chiuso, le ragioni tra storia e filosofia

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Come mai Apple produce apparecchi “chiusi”? Perché la casa di Cupertino ha creato una serie di “giardini recintati”, come si dice anche in italiano traducendo l’espressione inglese “walled garden”? E soprattutto, perché adesso tutto sta cambiando e le normative di mezzo mondo aggrediscono in maniera inusitata quello che a Cupertino viene percepito come un sacrosanto diritto di fare con i propri apparecchi quel che gli pare?

La risposta è un po’ meno semplice di quel che può sembrare. La spiegazione più facile è dire “perché Apple così sfrutta i suoi utenti e uccide la concorrenza”. L’abuso di potere del monopolista, la capacità di lobotomizzare chi usa i suoi apparecchi e renderli simili ai personaggi che compaiono nel famoso spot “1984” di Ridley Scott preparato per il lancio del Macintosh nello stesso anno e del quale è appena stato celebrato il quarantennale.

La realtà storica però è diversa. Attenzione, spesso le ragioni del diritto e quelle della storia sono divergenti: al giudice, qualunque giudice di qualsiasi nazione, non interessa fare il mestiere dello storico. Anche perché lo storico è interessato a ricostruire, capire, argomentare. Il giudice invece deve sussumere la fattispecie concreta nell’ordinamento astratto, deve giudicare cosa è successo e qual è la volontà che c’era dietro, non ricostruire gli aspetti storici e psicologici al di là di un perimetro operativo in realtà molto circoscritto.

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Lasciatemi stare

Negli Stati Uniti c’è un filone filosofico che attraversa la storia a partire dal suo inizio. I primi coloni americani, in particolare i puritani, cercavano rifugio religioso e politico in America dalle persecuzioni in Europa. Questo li spinse a valorizzare l’autosufficienza e l’indipendenza, e a desiderare una vita libera da interferenze esterne.

Il “diritto di essere lasciato stare“, conosciuto in America come right to be left alone, nasce così: la libertà dal giogo medioevale europeo, a cui si somma anche la grandezza degli spazi del continente nordamericano, la “frontiera” che è tutt’altro che un mito bensì un obiettivo concreto e un valore fondante. L’espansione verso ovest e la conquista del territorio americano alimentarono l’idea di individualismo e self-reliance. Vivere in una terra selvaggia richiedeva autonomia e capacità di badare a se stessi, rafforzando il valore della libertà individuale.

E, se la frontiera a ovest non fosse bastata, anche la guerra d’indipendenza contro il Regno Unito si è basata su questo assunto collettivo: libertà come diritto inalienabile contrapposto all’autorità centrale.

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Il capitalismo in America

La concezione del capitalismo nella società americana è molto più ricca, complessa e articolata di così, certamente, ma nella sua essenza interseca questa idea di libertà, di aver diritto di fare quello che si vuole nella misura in cui questo non prevarichi le libertà altrui e la legge (che deve dare delle regole essenziali e certe, non soverchiare l’iniziativa dei singoli schiacciandola nelle pastoie della burocrazia). L’America distingue fortemente tra libertà negativa (libertà da) e libertà positiva (libertà di). Il “diritto di essere lasciato stare” si ricollega alla libertà negativa, intesa come assenza di interferenze esterne.

Si può essere più o meno d’accordo tuttavia il gran numero di italiani che sono andati a vivere in America per non più tornare lascia intendere che anche da noi molte di queste idee sono le benvenute. L’America come “terra delle opportunità” ma anche di forti contraddizioni e divari sociali, perché manca del concetto di welfare che è diffuso tra le democrazie europee, passate attraverso un differente e sanguinoso processo di maturazione storica nel corso degli ultimi secoli, mentre gli Stati Uniti costruivano di là dall’oceano la loro identità e filosofia di base.

Quanto scritto sino ad ora semplifica e serve semplicemente da contesto per capire qual è l’insieme di valori che molte generazioni di imprenditori americani, compresi quelli della Silicon Valley, hanno interiorizzato. La Apple di Steve Jobs è nata come un’azienda che voleva cavalcare la rivoluzione tecnologica iniziata negli anni Settanta e farlo con determinazione e spirito di iniziativa. Con un’etica calvinista di fondo, che poi nell’essenza è lo spirito del capitalismo americano, si diceva che l’idea sociale dal punto di vista imprenditoriale di una azienda (come Apple) era che il successo dell’azienda sarebbe stato equo perché avrebbe ripagato la collettività con prodotti d’avanguardia, generando ricchezza e abilitando nuove possibilità per gli uomini di buona volontà.

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Chiarito il contesto, veniamo allo specifico. Apple è nata in un ecosistema che ancora stava nascendo. Si dibatte se l’Apple I, cioè il primo computer personale creato da Steve Wozniak con Steve Jobs e altri, sia stato il primo personal computer oppure no. Certamente il concetto di informatica personale è nato ad allora e il mercato era tutt’altro che “chiuso” da pochi monopolisti.

Invece, alla fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta il mercato era sempre più frammentato, con decine di innovatori che lanciavano il proprio prodotti e, infischiandosene bellamente della compatibilità con gli altri, cercavano di creare il sistema migliore e attrarre gli sviluppatori migliori.

In questa logica, Apple come Atari, Commodore, Sinclair, Amstrad, Radio Shack, Kyocera e anche la nostra Olivetti, avevano costruito un loro mondo. Tanti nomi diversi, tanti mini ecosistemi che avevano lo scopo di funzionare al meglio possibile.

Lo scisma religioso, per così dire, è arrivato quando il colosso all’epoca monopolista o quasi (Ibm) decise all’inizio degli anni Ottanta di creare uno standard trasversale dal quale profittare e, reale leva del successo, la Microsoft di Bill Gates capì che il valore era nel software e poteva creare applicativi che tutti potevano usare su dispositivi diversi ma compatibili. È stata la nascita del P.C., il Personal Computer, marchio registrato da Ibm peraltro.

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Una vecchia filosofia

Mentre Microsoft è cresciuta negli anni Ottanta, Novanta e primi Duemila, sino a diventare la più grande porta di ingresso nel mondo dell’informatica personale sia dei singoli che delle aziende, Apple è sopravvissuta, unica tra i tanti ecosistemi locali, solo perché straordinariamente più innovativa e resiliente degli altri.

Si getta sempre fango sulla gestione di Apple dopo la cacciata di Steve Jobs nel 1985 e prima del suo rientro in azienda nel 1997, ma in realtà l’azienda se da un lato ha rischiato di chiudere dall’altro è eroicamente riuscita a non chiudere, resistendo con le unghie e con i denti a un mercato e a un mondo spietato dove la legge non era più quella dell’innovazione “fair”, bensì quella dell’abuso del potere di monopolio, come poi ha certificato con sentenza anche l’Antitrust americano.

La Apple che è sopravvissuta è una azienda che ha inciso a fuoco nel suo Dna un concento che potremmo banalizzare dicendo, con un proverbio nostrano: “Chi fa da sé fa per tre”. La resilienza nasce dalla capacità di innovare perché c’è un diritto di essere lasciata stare. È l’azienda che sa come fare e vuole farlo. I consumatori seguono la scelta migliore. È l’idea di imprenditoria dove non c’è la scorrettezza di agire sul governo perché penalizzi i concorrenti (lobby) o addirittura sul mercato (ad esempio penalizzando i distributori del proprio prodotto se vendono anche quello della concorrenza) o addirittura sui clienti finali (creando prodotti che danno dipendenza, che “legano” con tecnologie proprietarie a un certo ecosistema).

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Il CEO di Apple, Tim Cook, posa per un selfie vicino ad un utente che indossa Vision Pro. Foto: Apple.

La Apple di oggi

Al legislatore e al giudice tutta questa ricostruzione non interessa, certamente. Invece, vale per lo storico e il sociologo. Ma questa è una buona parte dell’anima e dell’identità di una azienda che da sempre crede nella sua libertà di innovare, nella sua capacità di creare prodotti migliori di quelli degli altri, di comportarsi correttamente dal punto di vista delle pratiche commerciali e di mercato. Privacy, ambiente, inclusione: sono tutte parole che oggi Apple usa perché sono parte di quel che la multinazionale americana “crede”.

Così come crede che gli utenti che utilizzano i suoi prodotti non siano singoli robot di un gigantesco formicaio umano, bensì persone che vogliono usare per la propria vita e il proprio lavoro una serie di applicativi e soluzioni integrati e facili, usabili, sicuri, protetti. Questo, quando i numeri scalano e metà del pianeta, o quasi, utilizza i dispositivi cambiano come dinamica.

Il legislatore e il giudice vedono questo, quando guardano ai mercati dove è presente Apple. E i concorrenti anche. Ma chi utilizza i dispositivi e i servizi di Apple trova ancora, forse in filigrana ma comunque sempre presente, questa attitudine e questa idea. C’è chi dice (e magari ha le sue buone ragioni per dirlo) che forse Apple non mantiene più queste promesse, perché ha perso la sua anima originaria, e ricollega il tutto alla morte di Steve Jobs. Chissà. Certo è che l’azienda, dopo quasi cinquant’anni, mantiene ancora uno spirito straordinariamente coerente con quello del suo inizio e i suoi prodotti stanno lì a dimostrarlo.

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