Ministry of Sound, brand che raccoglie diverse realtà del mondo musicale fra cui diverse discoteche sparse per il mondo e un’etichetta discografica che pubblica compilation dance, ha fatto causa a Spotify intimando all’azienda svedese di rimuovere dal servizio tutte le playlist che emulano le compilation pubblicate da Ministry of Sound. L’etichetta aveva già contattato Spotify più volte in maniera informale ma la società svedese non aveva mai accolto le sue richieste. Ministry Of Sound non produce alcun artista specifico ma si limita a compilare album che contengono brani di altri artisti in uno specifico ordine.
La possibilità di creare playlist su Spotify consente agli utenti di replicare le compilation di Ministry Of Sound, compresi non solo i brani scelti ma anche l’ordine degli stessi. Probabilmente a qualcuno la preparazione di una compilation può apparire un’attività banale, in cui ci si limita a scegliere specifici brani e ad aggregarli fra loro; non è però di questo avviso Lohan Presencer, CEO di Minstry of Sound, secondo cui anche le loro compilation sono coperte dal diritto intellettuale:
Quello che facciamo è molto di più che mettere insieme delle canzoni: ci vuole ricerca e l’uso di proprietà intellettuali per creare le nostre compilation, e non è appropriato per qualcuno limitarsi a tagliare e incollare [le nostre compilation].
Secondo Presencer, dunque, anche uno specifico ordine di brani è coperto da copyrighted è giusto lottare per preservarlo: il CEO di Ministry of Sound ha poi confermato che la causa potrebbe estendersi anche ad altri servizi capaci di replicare le playlist.
A prescindere dalle opinioni sulla “dignità” di una compilation, e sulla sua presunta protezione intellettuale, la causa di Ministry of Sound introduce un’interessante tematica, ovvero la remunerazione dei curatori di contenuti. Con la musica digitale e la nascita delle playlist arrivano tempi duri per le aziende che si sono specializzate nella produzione di compilation, che non detengono effettivamente diritti sui brani in uso ma che si limitano a curare ed aggregare contenuti, in questo caso musicali, per creare ad esempio la compilation dance perfetta.
Come confermato da Spotify allo stesso Presencer, l’azienda al momento non dispone di una struttura per remunerare gli sforzi di chi offre, ad esempio, la sua esperienza e conoscenza musicale, per creare compilation (o playlist) secondo specifici crismi musicali: su Spotify vengono remunerati solo i possessori di contenuti, e non i curatori degli stessi. Alla luce di tali considerazioni viene spontanea chiedersi se le compilation abbiano ancora un senso e soprattutto un appeal commerciale in un mercato musicale dove al musica è divenuta ormai totalmente liquida ed ognuno è in grado di crearsi la sua miscela preferita in maniera totalmente autonoma.