Diciamocelo, il cloud non è stato creato tutto uguale. C’è la trita e ritrita battuta di Steve Jobs, “il cloud non è solo un hard disk tra le nuvole” (facendo polemica con Dropbox e intendendo dire che si possono fare servizi molto più complessi che non la sincronizzazione dei documenti) a cui se ne aggiunge un’altra sempre di Jobs, e cioè che il cloud in realtà “è il computer di qualcun altro”.
Dos è megl che uan
Prima di partire con ogni considerazione va fatta una debita e fondamentale premessa. Qui parleremo di cloud, ovvero di sincronizzazione dei dati che sono una cosa diversa dal backup di sicurezza. Cioè, sincronizzare i dati nel cloud non vuol dire metterli al sicuro dai rischi di oggi: virus, ransomware, incidenti vari e cancellazioni. Serve ad averli disponibili ovunque e anche se è vero che per quanto riguarda iCloud su iPhone il back up serve anche almeno parzialmente a metterli in sicurezza, la strategia dei due backup è la migliore.
Dobbiamo sempre avere una copia in locale (con un disco esterno, basta Time Machine) e uno esterno, sul quale viene tenuta ovviamente una copia dei file “interi” (cioè non i segnaposto dei file locali mentre il file intero è nel servizio cloud). In questo caso, da anni chi scrive ha scelto di differenziare la sicurezza affidando il backup nel cloud a un servizio terzo a pagamento, cioè Backblaze, che per esperienza risulta il più affidabile ed efficace.
A prescindere che si usi Dropbox o iCloud o altro, il backup deve essere alternativo al servizio cloud di sincronizzazione ed è fondamentale per preservare i dati nel caso di un incidente informatico (furto del computer, attacco hacker, ma anche violazione del proprio account da parte di terzi). Detto in un altro modo: se si sceglie di tenere tutti i propri documenti nel cloud, centralizzare su un servizio solo è più pratico e intelligente che non dividerli tra servizi di sincronizzazione cloud diversi.
Però, una volta centralizzati (che, come stiamo vedendo, è più comodo per gestirli ed eventualmente spostarli a un altro servizio), occorre anche proteggerli e per fare questo un secondo servizio dedicato di backup cloud esterno è la soluzione migliore.
Il dilemma: che succede se cambio?
Fatto questo chiarimento andiamo al dunque, la sostanza. Quando si tratta di decidere quale cloud usare si deve partire dal fatto che non tutti sono creati uguali ma hanno tutti una mamma e un papà. Cioè, i cloud sono offerti da aziende che li fanno pagare più o meno cari ma in realtà sono la colla che tiene insieme le piattaforme di società diverse e in concorrenza tra loro.
Cosa succede allora quando mettiamo la nostra vita digitale (i nostri documenti, calendari, messaggi, posta e via dicendo) su un cloud piuttosto che un altro? E cosa succede quando vogliamo cambiarlo? Vediamo di capirlo con una serie di analogie, perché la mente capisce meglio alcune cose se vengono rese comprensibili senza tante complessità
Dire addio a Dropbox
Se per ipotesi avete messo tutti i vostri documenti su Dropbox e avete deciso di utilizzare il servizio a pagamento perché buono, efficace e oltretutto indipendente (in gergo tecnico si dice “agnostico alla piattaforma”) cioè disponibile su Mac e Pc, Android e iPhone/iPad, sappiate che andate incontro ad alcuni problemi.
Dropbox ha cercato di rendere competitiva la sua offerta man mano che gli altri concorrenti hanno cominciato a mostrare i muscoli. I concorrenti di Dropbox, a parte Box che è molto simile ma più orientato al mercato aziendale, sono le tre grosse piattaforme cloud: Apple, Google e Microsoft (e ci sono anche alcuni servizi di Amazon, se proprio vogliamo).
La risposta di Dropbox è stato sommergerci di funzionalità a pagamento, spostandole verso l’alto (cioè togliendole dal piano gratuito e anche dai piani più economici) e offrendo servizi ulteriori: dall’archivio automatico delle foto del telefono alla gestione delle password sino ai backup nel cloud del dispositivo (la sincronizzazione dei file non è un backup).
In tutto questo però l’app di Dropbox per Mac è diventata sempre più “pesante” e con limiti nel piano gratuito (tanto che c’è Maestral una valida alternativa open source) e l’azienda non la sta più curando ed è andata incontro a brutti problemi di compatibilità con Apple Silicon la cui risoluzione arriverà in tempi non accettabili.
Se uno decide, come alcuni di noi hanno fatto in redazione, di voler “uscire” da Dropbox, scopre che tutta la grande leggerezza del cloud in realtà provoca una serie di problemi non banale. Non è come cambiare giacca, è più simile a un cambio di casa. Bisogna vedere quali app critiche possono usare solo Dropbox, come fare a trasferire i file (Dropbox utilizza un sistema di archiviazione solo cloud dei documenti che può generare perdite di dati se non si fa attenzione), di quali funzionalità abbiamo bisogno e come fare a trovarle.
Dalla padella alla brace
La cosa classica di quando si decide di uscire da un servizio o comunque da una situazione scomoda è di infilarsi in una peggiore. Succede se ad esempio ci si arrabbia perché ci sono stati dei problemi: tipicamente se ci sono una serie di interruzioni di un servizio a cui rispondiamo in maniera emotiva anziché analizzando razionalmente la situazione.
Per questo il ritardo nell’ottimizzazione di Dropbox su macOS per Apple Silicon è solo uno degli elementi di una pensata strategia di semplificazione e razionalizzazione dell’uso del cloud da parte del redattore che ha deciso di cambiare. Perché usare molti servizi cloud? Una volta analizzati gli spazi dove è necessario utilizzare Dropbox (per il redattore: tre app critiche che lo utilizzano, tra le quali Scrivener, e la necessità di piccole condivisioni di documenti con altre persone), ci si accorge che basta la versione gratuita e quindi l’abbonamento è stato disdetto non senza difficoltà.
Adesso c’è da capire quale altro cloud utilizzare. Per questo occorre fare un’analisi un po’ più complessa che eviti soprattutto un rischio: finire dalla padella nella brace. Cioè finire dentro un altro servizio ancora peggiore per noi di quello che stiamo lasciando. Per capire dove andare non bastano le caratteristiche tecniche dei servizi in concorrenza (Box, Azure Cloud, Google Cloud, iCloud Drive) ma anche le informazioni relative a chi siamo e a che cosa utilizziamo.
Le uova nel cestino delle Mele
La strategia nella vita dovrebbe essere quella di non mettere mai tutte le uova nello stesso cestino (perché se casca poi si rompono tutte), ovvero i gioielli di famiglia nel cassetto di qualcun altro, perché se poi questo viene chiuso all’improvviso può essere doloroso. Ma bisogna capire per bene cosa vuol dire per noi.
Se utilizzate computer di produttori diversi (un Pc e un iPhone, oppure un Mac e un Android, o altre combinazioni del genere) la scelta dovrà logicamente essere orientata verso una soluzione che sia trasversale. Questo impone dei seri limiti ai servizi Apple che, per quanto accessibili anche via browser, non sono tutti disponibili su altre piattaforme. Si può discutere se è così perché Apple vuole “legare” le persone alla propria piattaforma (i gioielli nel cassetto) oppure perché vuole offrire un servizio che la differenzi rispetto alla concorrenza per guadagnare con la vendita dei suoi prodotti (un cestino migliore) però non si può cambiare il modo con cui funzionano le cose e bisogna invece farsene una ragione.
Per il redattore che scrive la struttura di lavoro e della vita digitale è questa: i dispositivi che usa sono quattro (Mac mini, MacBook Air, iPhone, iPad) e sono tutti e quattro di Apple. Quindi iCloud se la gioca alla pari con gli altri servizi. Escludiamo Box che conosciamo e usiamo meno, e facciamo un ragionamento solo di compatibilità tecnologica, che poi è stato uno dei problemi che hanno spinto a cambiare da Dropbox.
Se Apple aggiorna il sistema operativo e addirittura cambia (come ha appena fatto) strategia tecnologica con i suoi processori, il rischio è che i produttori di app terze parti rimangano indietro e non siano più completamente compatibili. Oppure che alcune funzionalità (ricordiamoci che si parla di più cose oltre che di sincronizzazione cloud di documenti, cosa che richiede un accesso importante ai dati e ai servizi esposti dal singolo dispositivo) non siano più disponibili alle terze parti.
La scelta di iCloud sarebbe quindi di valorizzazione della compatibilità e affidabilità del servizio a scapito però della possibilità di cambiare piattaforma hardware in un secondo momento: se volessimo passare ad Android o a Windows, per esempio, andremmo incontro a forti problemi di compatibilità. Invece, se perdurassimo nella scelta del mondo Apple avremmo il vantaggio di una integrazione molto profonda e di un costante aggiornamento delle funzionalità e compatibilità.
Questo tipo di offerta fatta da Apple, che valorizza la sua piattaforma, è invece esattamente all’opposto di quella di Google, che cerca di dare servizi cloud a tutti per dare la possibilità di usare qualsiasi dispositivo sfruttando sempre il cloud come “sistema operativo”. È una differenza genetica (Google è nata nel cloud e ha vissuto a lungo senza dispositivi prodotti da lei) che di recente è stata sempre più copiata da Microsoft (il cloud di Microsoft si chiama Azure e consente alla casa di Redmond di avere accesso ai dispositivi Android e a quelli di Apple, al di fuori cioè dal perimetro di Windows).
Tagliare la testa al topo
Alle volte decisioni difficili sono in realtà più facili di quel che sembra. Il ruggito che ci ha spaventato è un ruggito di un topo, non di un leone. Quindi, considerato quale tipo di dati uno deve migrare, quale tipo di apparecchi utilizza, quanto vuole essere centrato su una piattaforma anziché su altre, siamo rimasti su iCloud.
iCloud+ funziona? La risposta breve è sì, grazie, e molto bene. Il vantaggio, se il servizio risulta affidabile, è quello dell’integrazione completa con il Finder su Mac e con iOS/iPadOS su iPhone e iPad. In più è facilita, offre servizi aggiuntivi, e dà a che la possibilità di usare lo spazio cloud anche per altre funzioni come i backup dei dispositivi mobili. Qui entra in gioco la capacità dei gestori di una piattaforma di mantenere il suo servizio in modo rapido ed efficace.
Ci sono anche svantaggi. Vediamoli, perché bisogna sapere cosa si rischia: l’interfaccia di gestione della sincronizzazione delle app di iCloud praticamente non esiste, non è possibile dare priorità ad alcuni documenti rispetto ad altri se non manualmente e in tempo reale, non è possibile tenere bloccati alcuni file sul disco locale mentre altri si spostano dinamicamente avanti e indietro nel cloud, tutte le app installate iOS creano cartelle nella root di iCloud Drive generando decisamente “confusione” visiva.
Tuttavia, dopo alcuni mesi di utilizzo con un MacBook Air che ha un disco con spazio inferiore a quello offerto dal nostro abbonamento iCloud, siamo felici di dire che il sistema funziona in maniera più che affidabile. I documenti sono sicuri, la sincronizzazione avviene in maniera trasparente e senza problemi, il disco è sempre libero al 50%.
Ogni lasciata non è persa
La migrazione da Dropbox è stata fatta, la soluzione è risultata più che accettabile, tutto funziona come deve. Ci siamo chiusi dentro un servizio proprietario che impedisce di muoversi nel variegato mondo della tecnologia? In realtà, no.
Intanto, questa migrazione ci ha insegnato un modo per fare analisi e semplificare cose che apparentemente sono complesse. Abbiamo capito cosa stiamo migrando, perché lo stiamo facendo e come facciamo a farlo. La prossima migrazione, se dovesse essere necessaria, richiederà molto meno tempo e la traccia dell’analisi (che si è rivelata valida) viene conservata come cosa preziosa.
Inoltre, la migrazione non vuol dire la chiusura dei servizi: Dropbox è tornato allo stato gratuito e rimane con il client open source e l’app sui dispositivi mobili. Google Drive e Microsoft Azure sono in una condizione analoga. Chi scrive non usa Windows/Office 365 quindi non ha bisogno di usare i terabyte di Microsoft. Invece, per quanto riguarda Google, lo spazio su drive serve casomai per la posta, non per i documenti se non quando c’è da fare qualche condivisione di testi di scrittura o fogli di calcolo.
La collaborazione e la condivisione di file di grandi dimensioni? Si fa tranquillamente usando le funzioni di iCloud per condividere le cartelle e usando le app di Apple (Pages, Numbers e Keynote) oppure usando in maniera molto leggera quelle di Google. Siamo per fortuna usciti dalla fase del pensiero unico per cui se non c’era Office di Microsoft non si poteva lavorare, e adesso si vive la libertà di un meticciato in cui si possono usare molti strumenti diversi senza dare neanche un euro a Satya Nadella.
La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità
Un’ultima cosa, perché leggendo questo articolo (o rileggendolo, se volete mettervi dal punto di vista di chi l’ha scritto) c’è un punto che è rimasto sullo sfondo: il famoso elefante al centro della stanza. E cioè: perché non usare tutti i sistemi, a seconda della bisogna? E poi, come ci regoliamo con le app che portano il loro cloud (Creative Suite di Adobe, sto pensando a te).
Poco sopra abbiamo infatti scritto che si tengono aperte le linee di comunicazione con i sistemi non più utilizzati come sistema primario (nel caso di questo percorso, usando iCloud, diventano secondari gli altri quattro o cinque, se contate anche Amazon AWS). Ma la cosa si presta a dei fraintendimenti. Occorre infatti avere metodo, il che non vuol dire necessariamente comprare manuali e fare studi di funzionalità e creare processi e procedure infinite. Anzi, le procedure migliori e più efficaci sono quelle più facili, perché vengono capite meglio, interiorizzate rapidamente e praticate con molta meno fatica e “attrito”. Procedure complesse e barocche rendono sostanzialmente la vita difficile: le soluzioni semplici esistono, anche per i problemi complessi.
In questo caso, i problemi sono due: mantenere attivi anche gli altri servizi cloud in forma gratuita (perché servono sempre) e mettersi in condizione un domani di poter migrare facilmente verso altri cloud, se lo si volesse. Come si fa? Semplice: abbiamo scelto un servizio (in questo caso iCloud che è comodo per i motivi detti sopra e siamo sicuri che consente comunque di esportare i dati alla bisogna) e si organizzano i dati per bene, in modo tale da avere un’unico “posto” dove le cose sono in ordine. La cosiddetta “fonte della verità”, cioè la versione corretta di tutti i file, senza duplicazioni, copie non aggiornate sparpagliate di qua e di là.
Un vantaggio di questo sistema è che sappiamo dove trovare le cose (sono organizzate), sappiamo dove metterle dopo che le abbiamo modificate (sono sempre organizzate), sappiamo come proteggerle (sono tutte lì e si possono fare i due backup in locale e in remoto senza timore di essersi dimenticati qualcosa) e se domani decidiamo di migrare sappiamo cosa prendere e portare via (sono organizzate) e come (l’abbiamo già fatto per andare dentro iCloud, in questo caso).
Un ultimo consiglio, se ce lo permettete: l’organizzazione è un metodo, non uno strumento. Non importa che sia iCloud piuttosto che Google Drive o Dropbox. Bisogna riflettere su come sono fatti i servizi, ma anche su quello che facciamo noi e con quali apparecchi, e scegliere la cosa che per noi risulta più facile e flessibile e che non ci blocchi in un unico ambito (sistemi che permettano cioè di esportare i dati). Se siamo ordinati e lo facciamo per bene, anche se dovessimo aver fatto la scelta sbagliata (siamo umani, dopotutto) c’è margine per capire cosa abbiamo sbagliato con la nostra scelta e a quel punto possiamo sfilarci con relativa facilità e passare ad altro.
È semplice. Almeno, lo è se non facciamo casino noi.