Mentre la diretta dell’evento di ottobre di Apple imperversava, come al solito da 25 anni su Macitynet (piccolo spot autopromozionale, lo ammettiamo, ma in effetti fa un po’ impressione pensare che ci siamo da un quarto di secolo), nella mente di questo cronista impegnato a fare la trascrizione al volo dei discorsi in inglese per aiutare chi non ha modo o interesse di seguire in lingua originale ha fatto capolino un’idea sovversiva.
E se quel viaggio nell’iperspazio, lo scatenamento della potenza dei nuovi processori rappresentato anche graficamente dall’effetto “velocità della luce” “hyperdrive” “velocità di curvatura 7” con le stelle che diventano strisce che si allontanano alle nostre spalle, rispettasse e rispecchiasse veramente la teoria della relatività?
E se quel viaggio nello spazio a quella velocità diventasse anche un viaggio nel tempo e all’improvviso dall’orizzonte degli eventi di trent’anni fa riemergesse un discorso centrato sul retro-design, sulla capacità di evocare un ritorno ai fondamentali?
Chiediamocelo perché per un attimo è calato attraverso il video di Apple una sorta di effetto memoria. E in un attimo siamo tornati al 9 gennaio del 2001, quando Steve Jobs introdusse con uno dei suoi keynote al Moscone Center (era il MacWorld, all’epoca) il PowerBook G4 chiamato Titanium.
Un computer pazzesco, l’ultimo a poter far girare Mac OS 9.2.2. Nome in codice: TiBook, venne presentato assieme alla versione bianca (“come un confetto”) dell’iBook G3, che invece evolveva dalla sua precedente forma a bacinella colorata, in linea con gli iMac (sempre dotati di tubo catodico e quindi con la caratteristica forma a emisfera) ed era un computer fenomenale, con uno schermo pazzesco e la possibilità di aprirsi a 180 gradi, diventando praticamente “piatto” come un libro squadernato. Qualcosa che oggi purtroppo i MacBook non fanno più, nonostante il nome.
Quel computer di allora, con il guscio di titanio, e i successivi modelli di alluminio, avevano elementi caratteristici di un design che potremmo definire “la seconda maniera” di Jony Ive, dopo il suo esordio sul beige e la falsariga dello stile Braun alla Dieter Rams, cominciava a liberarsi e costruire un suo personale discorso grafico che sarebbe poi diventato estremo a cavallo tra gli anni Dieci del nuovo millennio. Quei computer tuttavia avevano definito un’epoca grazie alla sontuosità della forma, prima ancora che dei materiali scelti.
Se le lavorazioni industriali di precisione di un tempo erano profondamente diverse (oggi si tratta di scocche estruse dal pieno utilizzando fusioni di alluminio totalmente riciclato, allora erano telai e telaietti assemblati con perizia da talentuosa manodopera asiatica, neanche fosse una catena di montaggio di modelli di automobile) quello che rimane identico è l’estro e quasi l’arroganza della scelta di alcuni particolari: i tondi, gli angoli che scompaiono e poi ritornano poggiando sui piedistalli dei quattro punti di appoggio sulla superficie del tavolo.
C’è da studiare come sta in mano questo computer, quanto scivola via dentro e fuori la borsa, quali sono le sue caratteristiche quando lo si apre (come fa a retrocedere la cerniera? quanto incassa e quanto invece deve uscire dalla sagoma per ruotare?) però le premesse sono per un qualcosa di speciale: di già visto e tuttavia di nuovo. Insomma, un ritorno al passato non diversamente da quello che ha fatto sia la Mini nel 1999 che l’Alfa Romeo infinite volte con i suoi modelli di Giulia e Giulietta. Un ritorno a forme note o a citazioni, bisognerebbe dire, che però portano un senso di noto e di conosciuto a chi ha vissuto quelle stagioni e dall’altro lato offrono una maggiore profondità a chi invece non ha avuto occasione di vivere la stagione surreale dei processori creati in comproprietà da Apple, Ibm e Motorola (i Risc PowerPC abbandonati per passare a Intel all’inizio del nuovo millennio).
La ricerca di un equilibrio di forme e funzioni in questo caso è una costante citazione che esalta l’eterna disponibilità delle forme e delle soluzioni innovative nel mondo del design a cui si arriva dialogando tra il già visto (come detto) e l’inedito. Lo spessore ridicolo per quanto è sottile della scocca che incassa il display di questi MacBook Pro 14 e MacBook Pro 16 fa capire che stiamo vivendo in una specie di film di fantascienza. Lo schermo è una meraviglia, così come è generosa la base che tiene dentro non solo una scheda madre robusta e una batteria da 17 o 21 ore, ma anche due grandi ventole che sono pronte a dissipare con lo sbuffo silenzioso di un drago qualsiasi tentativo di innalzamento della temperatura l’Apple Silicon possa voler provare a fare.
Il viaggio nel tempo dei computer di Apple è quasi uno scherzo. Ci ha provato Star Trek non molto tempo fa e con risultati particolari, visto che la produzione dell’alluminio trasparente coinvolgeva anche un Macintosh e San Francisco, ma quello a cui assistiamo oggi è un altro viaggio nel tempo. È una citazione cortese, un omaggio a sé stessi, alla propria tradizione. Apple guarda Apple e la ringrazia, sorridendo con una nuova generazione di prodotti che hanno nel loro DNA una tradizione incredibile. E una inedita scritta sul fondo, incisa a macchina in fase di estrusione dal pieno della scocca del PowerBook. Pardon, del MacBook Pro.
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