C’è una frase che riecheggia nella memoria del vostro cronista. E torna alla ribalta adesso quando la redazione decide che è necessario scrivere un articolo che parli di tecnologia e lockdown, coronavirus e controllo sociale. L’origine della citazione si è persa nella nebbia della memoria, o forse del web, ma la lettera del testo è facilmente ricordabile: «I governi passano, le infrastrutture restano».
È l’ennesima variazione di una serie di meme che girano da anni: i governi passano, i politici restano; oppure: i governi passano, i burocrati restano. E ancora: i governi passano, i problemi restano. Intende cose diverse, ma nella variante “le infrastrutture restano” introduce un brivido che fa pensare doppiamente, triplamente, al nostro tempo.
Facciamo un passo indietro. Se navigate in rete è impressionante vedere quanti articoli e siti stiano raccontando come lo smartphone e lo smartwatch stiano diventando strumenti per gestire, coordinare, controllare, evitare, aumentare le proteste, negli Usa com in altre parti del mondo.
La contraddizione dei termini scelti è voluta: lo stesso strumento, il telefonino, è usato sia per cercare di bloccare che per cercare di far partire le proteste. Lo strumento è sostanzialmente neutro, però l’infrastruttura che stiamo mettendo in piedi può evidentemente assumere colorazioni diverse a seconda dei posti e dei contesti. Cambiandoli anche in singoli Paesi dove fino a ieri magari c’era più pace sociale e oggi invece si va in strada a protestare per l’uccisione di un indifeso cittadino, facendo esplodere nuovamente una storia di razzismo e prevaricazione sociale e classista.
Agli ingegneri da sempre non interessa come vengono utilizzati i propri strumenti, almeno sino a quando questo non gli venga spiegato. È successo, dopo le dovute spiegazioni, con le proteste che hanno dilaniato Google quando si è appreso che l’azienda stava lavorando con l’esercito americano per realizzare sistemi d’arma, e analoghe considerazioni sono venute anche all’interno di Amazon e Microsoft per motivi analoghi. Oppure quando i dipendenti di aziende come Facebook mettono in atto marce virtuali per protestare contro la decisione del fondatore e capo assoluto di appoggiare la presidenza americana su una questione di verità messa in scena da Twitter.
Il tema è complicato. I telefonini sono oggetti nuovi: lo smartphone come lo conosciamo è nato nel 2007 con l’esordio dell’iPhone, ma ci sono voluti ancora sei o sette anni prima che diventasse un fenomeno veramente di massa. Negli ultimi cinque anni però lo smartphone e poi il watch (di Apple o di terzi) sono diventati onnipresenti. E hanno una caratteristica: sparano informazioni in continuazione. Sia la cella a cui sono agganciati che il bluetooth che fa sapere dove stanno fisicamente passando, che le coordinate raccolte dal Gps, oppure le app che si connettono con i server di casa, che triangolano le informazioni per raccontare dove si trova il wifi a cui si sono agganciate.
Se da un lato c’è da chiedersi come fare a proteggere la propria privacy e sicurezza mentre si protesta, dall’altro c’è da vedere come si fa a tracciare l’insieme degli spostamenti delle persone al tempo del coronavirus per riuscire a tracciare e intercettare eventuali altri focolai di infezione. Come si fa a comunicare in maniera sicura, senza che nessun governo ascolti? La funzione push-to-talk che usa il Bluetooth o le reti mesh locali basta? Sapevate che usando le heat maps di Snapchat è possibile vedere dove stanno partendo le proteste in questo momento? E che la maggior parte dei servizi di comunicazione, anche quelli crittati end-to-end, in realtà proteggono solo il contenuto della comunicazione ma non emittente e destinatario o la loro posizione? E che a volte alle autorità basta questo per posizionare le persone sulla scena di un crimine, ad esempio i manifestanti nei luoghi dei disordini?
Le aziende digitali prima e i governi adesso stanno utilizzando gli strumenti di quello che è stato definito “capitalismo della sorveglianza” per ridefinire le sfere pubbliche e private degli individui, e per ridefinire anche l’idea stessa di privacy degli individui. È evidente che oggi sta diminuendo il diritto dell’individuo singolo a fare in modo che quello che pensa, scrive e fa, compreso dove va, rimangano fatti suoi. Certo, nessuno sano di mente potrebbe dire che il governo del Grande Fratello spia ciascuno di noi. Anche perché la tecnologia del capitalismo di sorveglianza è l’opposto di quello che aveva immaginato George Orwell nel 1984: nel suo mondo, ancora profondamente analogico e legato ai totalitarismi asiatici, tutti spiavano tutti (ricordate la Romania di Ceausescu, oppure la Stasi della DDR, la Germania dell’Est?).
No, qui parliamo di un mondo diverso, in cui la tecnologia ha permesso di trasformare gli individui in folle, in gruppi, in greggi. La tecnologia permette di misurare tutto e soprattutto di aggregarlo. Ai big del tech, così come ai nostri governi, non interessa sapere se Mario beve il vino o se Maria scatta una fotografia a un piccione. Al capitalismo della sorveglianza non interessano i casi devianti, i singoli da reprimere. Invece, quel che interessa è costruire dei pattern, delle aggregazioni di informazioni anche relativamente autonome, che permettano però di costruire delle correlazioni e poi delle causazioni. Permettano di categorizzare gli individui coinvolti, creare “laghi” di big data (data-lake, letteralmente) e poi analizzarli con strumenti inediti alla storia dell’umanità. Perché l’altra metà della diffusione di sensori personali a un livello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare e quella di avere delle reti neurali addestrate per analizzare quantitativi di dati per noi inimmaginabili e trovare delle correlazioni inedite. Costruendo nuovi schemi.
Il singolo si nasconde, non è quello il problema. Ma la società prende una forma resa sempre più affusolata ed efficiente dalle aziende e in parte dagli stessi governi, espandendo questo e comprimendo quell’altro, aumentando discriminazioni e ingiustizie. Offerte di buoni lavori solo a Mario e a quelli come lui che bevono il vino ma solo di martedì, e invece di pessime posizioni a Maria e a quelle che come lei scattano foto girate verso nord.
Esageriamo, spariamo a caso, diciamo parole in libertà, ma la triste realtà è che non sappiamo il modo con il quale gli algoritmi che hanno addestrato le reti neurali a trovare le soluzioni sulla base di un approccio induttivo (dalla base dei dati si ricava la regola per trovare la risposta) anziché deduttivo come il software tradizionale (si applica la regola per trovare la risposta).
Per quel che ne sappiamo il prossimo mutuo potrebbe essere autorizzato da un sistema intelligente che aiuta il grigio funzionario di banca a chiudere le sue pratiche sulla base del bicchiere di vino e delle foto ai piccioni, perché no? Non c’è una prova scientifica che anche questo non si trasformi in uno dei profondi e aberranti abissi kafkiani del mondo che potremmo disegnare nel nostro futuro.
La quantità e la qualità delle interazioni che i gruppi hanno è il vero oro da predare, e l’idea di privacy come la conosciamo noi in questo caso c’entra poco, perché protegge i singoli e non le aggregazioni. Serve invece una protezione anche per gli aggregati anonimi di persone, perché in quell’anonimato ci sono i nostri volti presi di profilo, in chiaroscuro.
Soprattutto, adesso nel mondo si manifesta e si deve proteggere la popolazione dal coronavirus, che è stato sufficiente – secondo alcuni politici – a fare sì che anche in Italia si affievolisse il diritto alla privacy dei singoli a tutto vantaggio dalla superiore esigenza di sanità pubblica. L’infrastruttura lo consente: torri radio, reti di satelliti, server, sistemi di tracciamento, tecnologie radio di prossimità, apparecchi smart in tasca e al polso. C’è già tutta l’infrastruttura, che ci sarà anche quando saranno cambiati i governanti e con loro le politiche. E anche quando l’attuale leadership di Apple e di Google non ci sarà più. Allora chi prenderà le decisioni? E quali decisioni saranno? In quale direzione andranno?