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Lo strano caso dell’autonomia degli iPhone e degli Apple Watch

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C’è un dubbio che serpeggia tra gli utenti Apple: i valori di autonomia dei prodotti “post-PC”. Quelli che Steve Jobs ha voluto lanciare per fare la differenza: iPhone e iPad e poi Apple Watch. Prodotti che, per quanto riguarda telefoni e orologi, sono stati appena rinnovati con le nuove generazioni presentate nel keynote di Apple: iPhone 15 e 15 Pro, Apple Watch Serie 9 e Ultra 2.

Il dubbio è questo: come mai hanno sempre la stessa autonomia? Cioè, perché l’iPhone dura un giorno, il Plus/Max dura un 25% di più, l’Apple Watch un giorno, l’Ultra 36/72 ore? Dopotutto, cambiano chip, componenti, dimensioni e quindi, si pensa, anche forma e capacità delle batterie. E invece, sempre gli stessi valori. Che poi sul campo si traducono in una specie di noiosa regolarità (o mancanza: l’iPhone versione 6.1 pollici dura in realtà meno di un giorno, sia nella versione normale che Pro). Una spiegazione c’è.

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Lavorare per obiettivi

Apple da tempo ha spiegato qual è il modo di pensare i suoi prodotti, anche se non esplicita mai completamente il ragionamento e sicuramente non fa presentazioni che ruotano attorno a questa idea fondamentale per la sua strategia. Però è facile dedurlo: l’obiettivo non è la potenza, ma l’autonomia. Ed è un obiettivo fisso.

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Gli studi di marketing, oppure i parametri di uso progettati a suo tempo da Apple o forse semplicemente il caso (ma ne dubitiamo) hanno definito qual è la durata accettabile di un apparecchio a batteria. È più probabile che a suo tempo sia stato Steve Jobs. Comunque, quel tempo è una giornata nel caso del telefono e dell’orologio, e di più nel caso di un tablet e di un orologio da usare all’aperto (Ultra). Una giornata, cioè il tempo che separa da quando si esce di casa la mattina a quando si ritorna la sera.

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Stabilito questo, Apple ha risolto internamente uno dei più grandi problemi di tutte le aziende: capire quando fermarsi. Perché quando sviluppa una nuova generazione di prodotti sa che può “tirare” i processori e le altre componenti (schermi, trasmissioni e via dicendo) sino a che non toccano il limite dell’autonomia. Generazione dopo generazione, a decidere quanto viaggia sul terreno la Cpu e quanto può essere grande e luminoso lo schermo è questo parametro. Se si vuole un dispositivo più sottile, con batteria più piccola, allora si fa meno potente. Se si vuole più potente, si mette più batteria (e l’apparecchio diventa più spesso, come alcune generazioni recenti di iPhone e iPad possono confermare).

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Quando invece c’è un salto quantico di prestazioni nel processore, com’è accaduto con i Mac all’arrivo di Apple Silicon, si mantiene lo stesso fattore di forma della generazione precedente (MacBook Air e Pro 13), la durata della batteria cresce notevolmente e poi, sulla base del nuovo standard (una giornata piena di lavoro ininterrotto, anche qui) si procede a realizzare i nuovi modelli (MacBook Pro 14, 16 pollici) bilanciando potenza e dimensione delle batterie per avere la medesima autonomia.

Alla fine, quella trovata da Apple è una sorta di formula magica che permette di lavorare in maniera prevedibile e seguendo dei cicli di sviluppo che sono accettabili sia dagli ingegneri che da chi si occupa del marketing e di pensare all’usabilità dei prodotti. È tutto già scritto all’interno di questo parametro, quindi, e la scelta di portare avanti questa soluzione internamente “prevedibile” a nostro avviso può essere solo riferita a Tim Cook e alla sua capacità di ingegnerizzare i processi aziendali e costruire una azienda che marcia come un orologio e costruisce prodotti e valori a velocità rapidissima.

Si basa tutto sulla regolarità, più che sugli sprint. Come anche l’autonomia dell’ultima generazione di prodotti appena presentata, sempre la stessa di prima, dimostra. Anche quando l’azienda è sempre più verde e impiega nuove lavorazioni innovative a 3 nanometri per i suoi chip.

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