Il sale della terra americana è fatto da immigrati. Anche perché i nativi sono stati spazzati via o resi incapaci di arrivare ai vertici della società. E se anche i leader delle principali comunità statunitensi vengono da paesi europei, un numero sempre maggiore fa parte di etnie considerate dalla storia “minori” ma sempre meno tali: lo testimonia il primo presidente afroamericano della storia Barack Obama, ma lo testimoniano i sempre più numerosi capi di azienda provenienti da tutto il mondo: Asia, Africa, India.
Il blocco degli stranieri provenienti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen riguarda potenzialmente un totale di 134 milioni di persone. È un fatto inaudito, nel XXI secolo, se proviene dagli Stati Uniti. Altro che embargo per Cuba.
Ma cosa significa se si vanno a guardare le persone che guidano o hanno fondato i big della tecnologia? Basta scorrere l’articolo di CNN che abbiamo menzionato questa mattina che fa un elenco dettagliato degli emigrati protagonisti della Silicon Valley. Un esempio è Satya Nadella, Ceo di Microsoft di nazionalità originariamente indiana. Lo testimoniano anche i fondatori di alcune delle grandi aziende americane: Bob Miner, cofondatore di Oracle, era figlio di immigranti iraniani, come Pierre Omidyar, il papà di eBay. Il cofondatore di Yahoo è il taiwanese Jerry Yang, ma anche Andrew Grove, il Ceo di Intel che la rese un’azienda globale, era ungherese, mentre Jack Tramiel, il fondatore di Commodore e papà del personal computer, era polacco (e l’azienda nata originariamente in Canada). Sergei Brin, cofondatore di Google, è russo mentre il padre di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, è cubano. E non si contano gli immigrati da Irlanda, Scozia, Galles.
Ma il caso più eclatante che sta girando in rete in queste ore è quello di Steve Jobs, figlio naturale di un immigrato siriano. Era stato dato in adozione perché la madre, una giovane studentessa, aveva subito tra le altre cose le pressioni della famiglia di origine, che non voleva imparentarsi con dei musulmani.
Apple è l’azienda che ha fatto, come altre nella Silicon Valley e forse più delle altre, una bandiera della sua capacità di accogliere la diversità. Lo dimostrano giornalmente molti piccoli e grandi dettagli: dai discorsi sulla diversità di Tim Cook (che ha dichiarato apertamente la sua omosessualità per farsi bandiera, visto il ruolo pubblico, di una causa che per molti non è purtroppo sostenibile) ai cognomi di tante persone che lavorano per Apple: da Craig Federighi (di chiara origine italiana, i “dagos” dell’immigrazione che gli americani osteggiavano all’inizio del Novecento) ai Phil Schiller (il cui passato è chiuso in un riserbo proverbiale) sino a Greg Joswiak, all’esplosiva Bozoma Saint John.
E come non pensare all’altro Steve, cioè Wozniak, che racconta nella sua autobiografia “Woz” di avere una madre di origine svizzera e un padre di origine polacca (anche se la città natale del padre di Wozniak era in realtà in ucraina, al momento della sua nascita).
Tutta gente che non ci dovrebbe essere stata o che, nella peggiore delle ipotesi, se ci fosse stata assieme a decreti come quello di Trump, sarebbe stata internata, imprigionata, spogliata e rispedita indietro. E la Silicon Valley non sarebbe probabilmente neanche nata, a meno che i suprematisti bianchi e il Ku-Klux-Klan non avessero rivelato un insospettabile talento per la microelettronica e l’algoritmica.