Con l’avvicinarsi del lancio degli occhiali per la realtà aumentata di Apple torna fuori una vecchia domanda che perseguita Apple: “Il nuovo prodotto X sarà un nuovo iPhone?“.
Non si capisce perché ogni nuovo prodotto di Apple, soprattutto se ancora non annunciato, venga sempre inquadrato come se ci fossero solo due alternative: o è un successo simile all’iPhone o è un fallimento totale. L’iPhone è probabilmente unico nella storia dell’informatica e dell’elettronica di consumo. L’iPad, l’Apple Watch e gli AirPods invece non sono stati degli iPhone ma sono stati tutti grandi successi. Infatti, conti alla mano, nessuno di loro ha le dimensioni del fenomeno iPhone. Guardiamo i conti dell’azienda nel 2022: tutto il settore degli indossabili (Apple Watch e AirPods) più l’iPad e più il Mac sommati fanno circa la metà delle entrate dell’iPhone. Tuttavia, sfidiamo chiunque a pensare che non si tratti di prodotti di successo.
Tutto questo fa tornare alla mente un libro pubblicato negli Usa e da poco uscito anche in Italia che affronta la storia e la vita di Steve Jobs da un angolo particolare. L’eredità di Steve Jobs. Tutta la verità sulla Apple scritto da Tripp Mickle e pubblicato in Italia da Sperling e Kupfer a fine 2022, è la storia “drammatica e mai raccontata” della Apple dopo la morte di Steve Jobs seguendo i suoi due principali protagonisti: Jony Ive e Tim Cook.
Come avevamo già scritto, il libro è basato su un’idea molto semplice: l’anima di Apple era Steve Jobs, che fine ha fatto adesso?
Alla morte di Steve Jobs la società è stata per qualche anno al centro del difficile bilanciamento tra la prospettiva tutta orientata al design e all’esplorazione di nuovi ambiti di mercato, dettata da Jonathan Ive e quella che ha manovrato quasi esclusivamente a mettere a frutto, soprattutto economico, un ambito di dominanza conquistato sul mercato.
Quest’ultima è la strategia di Tim Cook, che ha avuto la meglio e ha cambiato l’atmosfera di Apple al punto da perdere la sintonia e convincere Ive a lasciare, per dedicarsi ad altro.
Lotta fra titani
Sappiamo che, circa un anno dopo la scomparsa di Steve Jobs, dentro Apple sono iniziati degli assestamenti importanti. Assunzioni di alto livello che, in prima battuta, non sono andate bene (il responsabile degli Apple Store), i fallimenti e l’estromissione di Scott Forstall, e poi un periodo di relativa pace che in realtà erano solo la fiamma che covava sotto le ceneri. Una fiamma che ha consumato in maniera carsica un rapporto costruito attorno a Steve Jobs, logorandolo sino al punto da svuotarlo. E arrivare alla rottura finale.
Scrive infatti il New York Times in un lungo e appassionato articolo dedicato al libro di Mickle: “Il libro ripercorre l’evoluzione e la fine del sodalizio tra Ive e Cook, con una serie di fonti pubbliche e oltre 200 interviste a dipendenti e consulenti di Apple, attuali ed ex; il cast dei personaggi si estende per quattro pagine. In parte questo è causato dalla “cultura dell’omertà” di Apple: a quanto pare, né Ive né Cook hanno accettato di parlare con l’autore, ma Mickle usa spesso la tecnica della comparazione per delineare le loro differenze, come ad esempio il fatto che Ive si rechi al lavoro in una Saab giallo brillante, mentre Cook con una Honda Accord piuttosto scialba”.
Il mito della Silicon Valley
Capire il successo del libro di Mickle, che va oltre all’aspetto del gossip da rotocalco e l’exposé di una situazione in realtà complessa, richiede un paio di passaggi. Il primo è che la Silicon Valley non è solo il motore e una gigantesca fucina di tecnologie e competenze, ma anche una cultura e un modo di intendere la vita. Nei semafori delle strade che attraversano Palo Alto e Cupertino è difficile vedere un ciclo di rosso in cui non sia ferma almeno una Tesla, per esempio. Oppure le discussioni da Starbucks su come fare a fare una montagna di soldi con la prossima app e la prossima startup. Il vicino di coda dal panettiere italiano dove comprare le michette la mattina potrebbe essere un venture capitalist capace di mettere centinaia di milioni di dollari su un progetto abbozzato su un fazzolettino di carta, basta solo fare il pitch giusto.
In un ambiente “magico”, come è ogni cultura soprattutto quando portata all’estremo e alimentata dalla propria leggenda, Steve Jobs ha un ruolo particolare. È l’ultimo grande ma anche il primo capace di trasformare la percezione del ruolo di imprenditore e della sua leadership. Steve Jobs è morto relativamente giovane, nel 2011, ma era comunque “vecchio” per gli standard della Silicon Valley, come lo era la sua azienda. Apple è stata fondata negli anni Settanta come Microsoft, Google invece arriva alla fine degli anni Novanta con Larry Page e Sergei Brin, mentre Facebook di Mark Zuckerberg arriva ancora dopo, nel nuovo millennio. E il giovane Zuckerberg è uno dei fondatori della nuova Silicon Valley, molto più aggressiva e basata sul cloud e la monetizzazione degli utenti, che va da Jobs cercando di trasformarlo in un suo mentore. In un percorso imprenditoriale che si sovrappone perfettamente alle personalità “più grandi della vita” dei loro fondatori.
In questo contesto i vari Jony Ive e Tim Cook sono quasi degli estranei, come l’ondata di manager indiani che lentamente ha scalato i vertici delle aziende americane e di cui Satja Nadella e Sundar Pichai sono solo la punta dell’iceberg. Sono due manager, Cook e Ive, nati in un’altra epoca, appartenenti a un modo diverso di vedere e concepire il mondo. Che si sono trovati di fronte a un problema profondo.
Leadership e trasformazione
La lotta senza quartiere tra Cook, nominato capo da Steve Jobs perché era l’uomo giusto e non perché facesse come Jobs avrebbe fatto, e Jony Ive, anima del design di Apple sempre più lontano dal tecnigrafo e sempre più guru del design ipnotizzato dal mondo della moda, è la lotta di due correnti personali diverse.
Tim Cook è stato un manager che ha dovuto abbracciare un cambiamento enorme come unica soluzione per riempire un vuoto pazzesco: la leadership di Steve Jobs. Lo ha fatto certamente dando spazio alla sua vocazione più profonda, cioè la capacità di organizzare e fare funzionare macchine estremamente complesse con una precisione millimetrica (e rendendo l’aspetto economico e finanziario prevalente), ma lo ha fatto anche abbracciando una trasformazione del sé basata su quello che aveva a disposizione. La sua identità, i suoi gusti e le sue preferenze, la sua attenzione per la privacy e per il fitness, la vita sana. Tutto questo è diventato parte della sua immagine pubblica e della strategia stessa di Apple.
È stato un cambiamento epocale per l’uomo prima ancora che per l’azienda, e se vogliamo cercare le ragioni di questo cambiamento le troviamo nella scelta, a nostro avviso molto intelligente, di cercare di fare bene con quel che si è, non cercando di essere altro. In prima battuta forse Cook ci ha provato, con una serie di mosse di consolidamento (pensiamo all’allontanamento di Scott Forstall e alla sostanziale accettazione del “partito Ive” composto da tutti gli altri manager importanti e di alto livello dell’azienda) o di ricerca di un senso (come l’assunzione della responsabile del settore retail Angela Ahrendts, ex ceo di Burberry e prima portatrice dell’idea dei valori e dei principi all’interno del volto pubblico dell’azienda).
Dall’altro lato, Ive ha un percorso meno coraggioso, più limitato. L’ultrasensibile e talentuoso Maestro la cui penna è dietro il design iconico dei prodotti Apple dalla fine degli anni Novanta e la cui vociona molto britannica ha fatto da colonna sonora per decine e decine di video di presentazione dei prodotti, senza però mai comparire sul palco del Moscone Center prima e della sede di Cupertino poi, si è sostanzialmente innamorato della moda e del lusso. Si è innamorato della frontiera rappresentata dall’esclusività, dal valore fuori scala, dall’eleganza elitaria. Non c’è un altro modo per descrivere la fascinazione che ha portato Ive a concepire sempre più progetti e idee come se fossero destinate solo a una élite. Emblematico il caso dell’Apple Watch di oro massiccio (la prima generazione dell’orologio), oppure i legami con le case di moda per avere modelli con cinturini in pelle che costano più di un MacBook (che a sua volta costa parecchio).
Ive in un secondo ha tradito la metà dell’ethos di Apple, che era legata al gusto minimalista ma sensato di Steve Jobs, molto più ancorato nella sua ricerca a Dieter Rams e al Bauhaus. Un gusto nel quale “less is more”. Attenzione, però, perché forse Ive non ha mai capito quel che Jobs intendeva.
Le origini del minimalismo
La definizione di “less is more” è attribuita a Ludwig Mies van der Rohe, un famoso architetto e designer tedesco. La frase significa che spesso meno è di più, ovvero che a volte l’utilizzo di elementi essenziali e minimi può produrre un effetto più potente rispetto all’utilizzo di molti elementi. Mies van der Rohe era noto per il suo stile minimalista e per il suo utilizzo della frase “less is more” come principio guida nella sua architettura e nella sua progettazione di mobili.
Ive è passato dall’idea comune a quella di Steve Jobs che il design sia come funziona una cosa e non com’è fatta, a un’idea opposta, per cui conta la forma che deve essere minima e non essenziale. Ive fa questo attraverso l’estetizzazione dei prodotti, che diventano status symbol e rappresentano qualcosa (un computer ultrapiatto, un tablet ultra sottile, un telefono ultralevigato) più che fare qualcosa.
In realtà, la visione di Jobs era profondamente diversa pur partendo dal dato comune del minimalismo e il gusto di Jobs serviva proprio a bilanciare la tendenza estetizzante di Ive: per Jobs il minimalismo voleva dire utilizzare strumenti semplici (dal punto di vista dell’utente) per fare cose anche molto complesse. La semplicità del Mac o dell’iPod, dell’iPhone o dell’iPad, non sta nel suo essere simile al monolite nero e privo di appigli di 2001 Odissea nello spazio, ma nel mettere a disposizione una serie di strumenti e funzioni semplici da usare (ma estremamente difficili da creare) che permettono di fare tantissimo perché eliminano l’attrito introdotto dalla macchina o dal software.
Per Steve Jobs il computer era uno stile di vita, non solo un prodotto. Per Jony Ive era diventato uno status symbol, perdendo di vista la sua funzione.
Il grande conflitto
In questo complesso rapporto tra idee e visioni del mondo il ruolo di Tim Cook è stato fondamentale e totalmente incompatibile. Come racconta anche il libro di Mickle, infatti, a differenza di Ive e dei suoi obiettivi estetizzanti, Cook ha dovuto affrontare una serie di eventi molto concreti. Infatti, è stato chiamato davanti al Congresso per la questione delle tasse di Apple (troppo poche, sostenevano i politici americani). Ha dovuto scusarsi per le scarse prestazioni della prima versione di Apple Maps (che è stata la gocciona che è costata il posto a Scott Forstall). Mentre il più grande concorrente dell’iPhone andava letteralmente in fiamme (il Samsung Galaxy) la più grande teleco cinese, China Mobile, ha deciso di cominciare a vendere l’iPhone grazie a un miracolo di diplomazia e investimenti in Cina dell’azienda.
Infine, nel 2014, Cook ha fatto la storia dichiarando: “Sebbene non abbia mai negato la mia sessualità, non l’ho nemmeno riconosciuta pubblicamente, fino ad ora. Quindi voglio essere chiaro: sono orgoglioso di essere gay e considero l’essere gay uno dei più grandi doni che Dio mi ha dato“. Cook è stato il primo amministratore delegato di una società Fortune 500 a fare coming out. E nel 2018 è diventato anche il primo ceo di una società quotata in Borsa la cui capitalizzazione di mercato vale un mille miliardi di dollari. Poi duemila.
In conclusione
Il libro di Mickle (che vanta una delle più belle copertine nella versione originale americana e forse una delle più brutte in assoluto per quella italiana) coglie fino a un certo punto queste sfumature. Segno che, nonostante la mole quasi imbarazzante e decisamente muscolare di documentazione, non si riesce mai a dire tutto quel che si vorrebbe su un argomento così ampio e ricco di sfumature e conseguenze.
Oggi Apple ha un ruolo culturale che non schiaccia più, come ha fatto per un momento alla metà del primo decennio del XXI secolo, tutto l’ambito dell’innovazione digitale. Steve Jobs non ha mai trovato un erede al suo pensiero né ha mai cercato effettivamente di trasferire quella che è stata la sua carica innovativa personale nel mondo: la pessima biografia di Walter Isaacson, nonostante fosse stata chiesta e autorizzata da Jobs, è sostanzialmente un brutto incidente letterario da evitare di leggere a tutti i costi, dettato più dall’avidità dell’editore che ha voluto mettere in circolazione un libro non ancora pensato e scritto in maniera definitiva per cavalcare la repentina scomparsa di Jobs (lo disse lo stesso Isaacson, che aveva originariamente pensato di pubblicare una versione 2.0, poi evidentemente abbandonata), che non dalle presunte verità che contiene.
Cercare, come fa Mickle, di cogliere i dettagli di un litigio di condominio (seppure miliardario) alle volte pare quasi un esercizio di entomologia al centro della foresta amazzonica. Si perde completamente il senso delle proporzioni e addirittura non si vede più neanche l’albero, figuriamoci tutto il resto. Tuttavia, denso di fatti e aneddoti, è un altro tassello importante per chi vuole una lettura rilassante e al tempo stesso ricca che permetta di scoprire cose nuove sulla Apple di questi ultimi anni. Non è poca cosa.