Se pensate che l’innovazione sia questione di startup e garage nella Silicon Valley, dovreste conoscere la storia di Oskar Barnack. Un ingegnere tedesco che, esattamente cento anni fa, ha hackerato una pellicola cinematografica per creare quello che oggi chiamiamo “full frame” ma che all’epoca si chiamava “piccolo formato”, rispetto al medio e al grande formato dei banchi ottici. L’azienda per cui lavorava, che produceva microscopi a Wetzlar, non aveva nulla a che fare con la fotografia. Però sapeva molto bene come fare delle lenti estremamente efficaci e definite. E Barnack aveva un’idea fissa: rendere le macchine fotografiche portatili abbastanza da poterle usare senza sembrare un traslocatore.
L’intuizione è stata geniale nella sua semplicità: prendere la pellicola cinematografica da 35mm e raddoppiarne il formato. Invece del classico fotogramma 18x24mm del cinema, Barnack ha creato il formato 24x36mm. Un hack che oggi fa sorridere per la sua ovvietà, ma che all’epoca era considerato una follia: chi mai avrebbe voluto fare foto con una pellicola così piccola? Occorreva un obiettivo capace di “risolvere” con tantissima precisione l’immagine, e poi dall’altro lato un ingranditore altrettanto capace di amplificare i dettagli più minuti senza distorcerli. L’azienda di Wetzlar che produceva microscopi e canocchiali aveva tutto quel che serviva.
Il suo prototipo, chiamato “Ur-Leica” (tipo “beta release” ma in tedesco), era pronto già nel 1914. Ma poi è arrivata la Prima guerra mondiale e il progetto è finito in un cassetto. C’era altro a cui pensare. Come nelle migliori storie di innovazione, ci voleva un visionario per capirne il potenziale: entra in scena il figlio del proprietario, Ernst Leitz II, che nel 1924 ha pronunciato le parole magiche che ogni innovatore vorrebbe sentire: “Correremo il rischio”.
La spinta non era egoistica ma altruistica: nella fabbrica di famiglia lavoravano generazioni di operai dei villaggi attorno a Wetzlar. C’era la crisi, provocata dal comunismo che aveva fatto cadere lo Zar in Russia nel 1917, e con lui buona parte del mercato nel quale Leitz vendeva i suoi microscopi a medici e centri di ricerca dell’Impero di Mosca. Dopo un po’ di anni la crisi era diventata ineludibile.
A quel punto Ernst Leitz II si trovava di fronte a un dubbio: licenziare per la prima volta quelli che sostanzialmente erano i suoi vicini di casa ma salvare il suo patrimonio personale, oppure rilanciare con nuovi prodotti prendendosi il rischio economico in prima persona. Scelse questa seconda strada.
Da beta a standard globale
La Leica I, presentata alla Fiera di Lipsia del 1925, è stata il primo prodotto di quella che oggi chiameremmo una “platform revolution”. Il formato 24x36mm è diventato lo standard de facto della fotografia, quello che oggi chiamiamo un po’ pomposamente “full frame”. Ci sembra grande, e in effetti lo è rispetto ai pochi millimetri quadrati dei sensori degli smartphone o anche dei formati Aps-C o Micro Quattro Terzi. Attorno a quello standard Barnack ha creato un ecosistema completo: fotocamera, obiettivi intercambiabili, accessori, ingranditori.
La vera magia però è stata un’altra: la precisione costruttiva tedesca che ha permesso di creare qualcosa di unico. Gli obiettivi Leica degli anni ’50 funzionano ancora perfettamente sulle fotocamere digitali di oggi. È come se si potesse usare iOS 18 su un Nokia 3310: impossibile per tutti, normale per Leica.
Quello che rende ancora più straordinaria questa storia è che non c’è stato bisogno di brevetti o protezioni. Altri produttori hanno copiato il formato, creando quello che oggi chiameremmo un ecosistema open source. Zeiss, decine di altri produttori tedeschi e francesi e italiani. E poi i giapponesi di Nikon, Canon. Tutti hanno seguito la strada aperta da Leica, contribuendo a rendere il 24x36mm lo standard universale, ognuno con le sue differenze (gli agganci degli obiettivi) ma tutti con il medesimo formato per la pellicola e le stesse cartucce intercambiabili (i rullini fotografici).
La precisione come filosofia
Quello che rende unica la storia di Leica è l’ossessione per la precisione meccanica. Mentre oggi misuriamo tutto in nanometri e cicli di clock, loro continuano a produrre fotocamere con micro-tolleranze incredibili. Un obiettivo Leica viene ancora assemblato a mano, con procedure che ricordano più l’orologeria svizzera che l’elettronica di consumo (e in effetti fa anche degli orologi, a tempo perso). Gli ingegneri Leica calibrano le loro ottiche con una precisione di 0,001 millimetri. È come se stessero costruendo un computer quantistico, ma lo fanno con vetro e metallo. La telemetria, il sistema di messa a fuoco che ha reso famose le Leica, richiede un allineamento talmente preciso che solo pochi artigiani al mondo sono in grado di calibrarla.
E qui arriva il paradosso: in un’epoca in cui tutto è “smart” e automatizzato, le Leica richiedono ancora skill analogiche. Un fotografo Leica che vuole usare il telemetro non ha un obiettivo che mette a fuoco per lui: deve imparare a misurare le distanze a occhio, a prevedere il movimento, a pensare prima di scattare. È slow tech nel migliore dei modi possibili.
L’arte dell’essenziale
La filosofia Leica si può riassumere in una frase: togliere tutto ciò che non serve. Mentre le fotocamere moderne hanno menu con centinaia di opzioni, una Leica ha solo l’essenziale. Come sappiamo, sulle famose serie M non c’è nemmeno l’autofocus. È una follia? Il grande fotografo Henri Cartier-Bresson diceva che “fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore”. Forse non è tanto una follia.
Questa semplicità estrema ha attirato fotografi di ogni tipo. Da paparazzi a premi Pulitzer, da artisti concettuali a documentaristi di guerra. Steve Jobs era un fan: si dice che il design minimalista degli Apple Store sia stato ispirato proprio dall’estetica Leica, oltre a quella della nostra Olivetti. E non è un caso che Jony Ive, l’ex chief designer di Apple, sia un collezionista oltre ad aver firmato il design di un modello celebrativo.
La cosa più sorprendente? Nel 2025 una Leica M, l’erede della Leica I, funziona esattamente come funzionava nel 1954. Certo, ora c’è un sensore invece della pellicola, ma l’esperienza d’uso è identica. È come se qualcuno avesse trovato la formula perfetta e avesse deciso di non toccarla più.
L’innovazione che dura
Oggi Leica continua a innovare mantenendo fede al suo DNA originale. Ha creato fotocamere digitali che scattano solo in bianco e nero, eliminando il filtro Bayer che tutti danno per scontato. Ha lanciato modelli senza display posteriore per chi vuole un’esperienza puramente analogica in formato digitale mantenendo il telemetro. Ha realizzato macchine all in one a focale fissa dalle capacità sorprendenti, come la serie Q, ad esempioo. E mirrorless professionali di altissimo livello, come la serie SL.
L’azienda festeggia il centenario della fotocamera che ha fatto cominciare tutto con una serie di eventi globali a giro per il mondo, da Dubai a New York, da Tokyo a Londra. Ma il vero tributo è nella continuità: ogni Leica moderna, che sia digitale o analogica, porta con sé il codice genetico di quell’hack originale. In un’epoca in cui la tecnologia diventa obsoleta prima ancora di uscire dalla scatola, è un risultato notevole.
La lezione più importante dei cento anni di Leica è che l’innovazione migliore è quella che dura nel tempo. Mentre ci prepariamo per l’era dell’intelligenza artificiale e del metaverso, vale la pena ricordare che tutto è iniziato con un ingegnere che ha guardato una pellicola cinematografica e si è chiesto: “E se la usassimo in modo diverso?”. Il resto, come si dice, è storia della tecnologia.
Il futuro è nel passato
Non bisogna pensare però che Leica sia rimasta ferma nel tempo. L’azienda sta spingendo l’innovazione in direzioni inaspettate. Il bello però è che ogni innovazione viene introdotta solo se rispetta il DNA originale. Niente touchscreen inutili, niente funzioni “social” integrate, niente filtri automatici. Una Leica del 2025 è ancora prima di tutto una macchina fotografica. In un’epoca in cui ogni gadget vuole essere “smart”, c’è qualcosa di rivoluzionario in questa purezza d’intenti. E nell’interfaccia minimalista dei suoi corpi macchina, che mira a togliere l’attrito tra il fotografo e l’immagine che vuole catturare.
La domanda che dobbiamo farci è: cosa possono insegnarci questi primi cento anni di Leica? Forse che l’innovazione più duratura non è quella che insegue le mode, ma quella che rimane fedele a un’idea originale. O forse che, come diceva Alfred Einstein, “tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice di così”. In fondo, non è questo il vero hack?