Una ricerca lascia intendere che le nuove unità SSD a stato solido siano più veloci e robuste dei tradizionali dischi fissi ma sono altresì soggette a soffrire di un difetto intrinseco: perdono la loro affidabilità se lasciate “dormienti” per lunghi periodi senza prestare adeguata attenzione alla temperatura circostante.
Il fattore più preoccupante è che il tempo in questione non è chiaro: i problemi possono verificarsi dopo settimane e mesi ma in alcuni casi bastano persino pochi giorni. Le unità allo stato solido sono come già detto per vari motivi migliori rispetto ai tradizionali dischi fissi meccanici ma una recente presentazione di Alvin Cox di Seagate asserisce che la durata per la quale i dati sono conservati su alcuni SSD dimezza all’innalzarsi di ogni 5° di temperatura. Secondo i dati di Cox, un’unità custodita in un ambiente caldo, diciamo 25°C, è in grado di conservare i dati per circa due anni; ma se la temperatura si innalza di pochi gradi, esempio, a 30°, la durata complessiva può anche dimezzare.
Anche se la presentazione arriva da un dirigente Seagate, quindi una società che potrebbe aver interesse nello sminuire capacità e specifiche delle unità SSD, occorre notare che i dati presentati su temperatura e mantenimento dei dati in memoria sembrano provenire da una ricerca Intel, società che produce SSD col proprio marchio. Non bisogna ad ogni modo essere troppo allarmistici: la durata dipende non solo dalla temperatura ma anche dalla tipologia di unità utilizzata. Molti delle unità a stato solido, come quelle per i desktop ad alte prestazioni o quelle integrate in molti notebook (inclusi i MacBook) non soffrono troppo del problema evidenziato. Queste, infatti, se custodite a temperature non eccessive, sono progettate per conservare i dati per almeno due anni. Il problema riguarda in particolare le unità destinate ad ambienti enterprise, per le quali il periodo di conservazione, è probabilmente inferiore a quello che finora si riteneva corretto.
