Uno studio tuttora in corso da parte di alcuni ingegneri dell’Università di Stanford, in collaborazione con ricercatori cinesi, ha dimostrato come alcune tarme siano in grado di biodegradare vari tipi di plastica.
Si calcola che per quanto riguarda i soli bicchieri termici di polistirolo espanso (quelli, per intenderci, per il caffè), vengono gettai via ogni anno in 2.5 miliardi di pezzi negli USA e questa è solo una piccola frazione delle 33 milioni di tonnellate di plastica che nei soli Stati Uniti vanno a finire nei rifiuti, con evidenti problematiche concernenti la contaminazione dell’acqua e l’intossicazione degli animali.
Una possibile soluzione potrebbe arrivare dalle larve della farina, coleotteri che amano gli ambienti secchi e che si è scoperto possono nutrirsi di una dieta a base di polistirene e altri polimeri simili. È quanto scoperto da studi del dipartimento d’ingegneria civile e ambientale di Stanford, dai quali è emerso che microorganismi nello stomaco delle tarme sono in grado di biodegradare la plastica.
Comprendere in che modo i batteri delle tarme svolgono questa operazione, potrebbe essere una svolta in grado di offrire nuove possibilità per gestire in modo sicuro alcuni rifiuti. In laboratorio, 1000 tarme hanno ingerito tra i 34 e i 39 milligrammi di Styrofoam (pannelli in polistirene), al ritmo di una piccola pastiglia ciascuno al giorno. Le tarme hanno “convertito” la metà dello Styrofoam in biossido di carbonio, alla stregua di quanto fanno con qualsiasi altro cibo. Nel giro di 24 ore hanno evacuato la maggior parte della plastica restante come frammenti biodegradati che appaiono simili a piccoli escrementi di coniglio. Le tarme che hanno seguito la dieta rigida a base di Styrofoam sono in salute al pari delle altre che seguono la normale dieta e i loro “rifiuti” appaiono salubri come quelli che si trovano comunemente nel terreno.
Sono necessarie nuove ricerche, per comprendere le condizioni che favoriscono la degradazione della del polistirene e gli enzimi che distruggono i polimeri; un elemento che a sua volta potrebbe aiutare gli scienziati a sviluppare potenti enzimi per la degradazione della plastica e invogliare i produttori a progettare polimeri che non degradino l’ambiente e la catena alimentare.