Apple Intelligence è stata appena annunciata alla WWDC 2014 e già sappiamo due cose: sarà rivoluzionaria e non parlerà italiano per molto, moltissimo tempo. Sicuramente non prima del 2025, ma c’è da temere che si potrebbe andare anche oltre. E ci sono molte ragioni per pensarlo.
Il problema dell’attesa?
Ma è così importante aspettare un po’, qualche mese, anche per gli utenti normali e non solo per gli impallinati di tecnologia che devono avere tutte le novità e subito? In realtà, sì. Il tempo dell’innovazione tecnologica è come gli anni dei cani: va moltiplicato per sette. Se pensiamo che ogni anno esce un telefono nuovo capace di fare cose che il precedente non immaginava neanche, oppure che una nuova generazione di processori abilita funzionalità inedite in quelle precedenti, la corsa al progresso diventa una corsa alla funzione e all’utilizzo, alla praticità e comodità.
Almeno, questa è in generale la vulgata, tanto è vero che l’intero business della tecnologia si regge su questo assunto che “nuovo è meglio” e “nuovo è spesso”, cioè le novità avvengono più rapidamente di quanto sia ragionevole aspettarsi. Colpa anche dei giornali ovviamente e di noi utenti, che siamo sempre in attesa dell’ultima trovata e che quando c’è un keynote che migliora l’esistente ma non presenta novità travolgenti, o un nuovo telefono che consolida ma non rivoluzione, gridiamo al tradimento, alla fine del mondo, alla crisi irrisolvibile. Con le consuete conseguenze di titoli in Borsa che calano e dividendi che si dimezzano.
Le aziende hanno tutti gli incentivi a presentare sempre le grandi novità il più velocemente possibile. Soprattutto se sono apparentemente rimaste indietro, come Apple con l’intelligenza artificiale. Al punto da presentare di corsa soluzioni in parte già allo studio da anni e in parte costruite molto velocemente. Con l’ovvio effetto collaterale di aver presentato un pacchetto di cose che ancora non c’è, perché molto di quello che Apple ha annunciato arriverà solo in autunno o (sempre parlando delle funzionalità in generale) direttamente nel 2025. E qui veniamo ai problemi di tutto quello che non è America e anche (forse di più) Italia.
Gli altri casi di ritardo storico
Non è certamente la prima volta che Apple presenta nel nostro Paese le sue novità in ritardo. Alle volte da noi le cose escono in contemporanea o quasi con i nuovi prodotti e servizi (iPhone dal 3G in poi, Mac, iPad dalla seconda generazione in poi, eccetera). Altre volte invece andiamo proprio lunghi.
Qualche esempio vecchio e nuovo? L’iPod è arrivato con mesi di ritardo in Europa, l’iPhone è arrivato a tappe alterne (in Italia il primo modello di iPhone 2G non è mai uscito, siamo andati direttamente all’iPhone 3G l’anno dopo). In Italia bisogna dire “Hey Siri” mentre negli Usa basta dire “Siri”.
I servizi poi sono un classico: Apple Pay, Apple Fitness+ e Apple Arcade sono arrivati parecchio tempo dopo la controparte americana. Anche l’Apple Watch è arrivato con un buon numero di mesi di ritardo, e se parliamo di prodotti che non sono mai sbarcati dalle nostre parti c’è da ricordare Apple News+, ad esempio, che è stato lanciato nel 2019 e da noi non si è ancora visto. Oppure il buon Vision Pro, che abbiamo appena appreso verrà lanciato a destra e manca tra giugno e luglio: ovunque tranne che in Italia.
Le ragioni dei ritardi di prodotti e servizi
Ci sono ragioni storiche ed economiche sul perché questi prodotti e servizi arrivino in ritardo o non arrivino mai da noi. Alcune sono abbastanza intuitive: occorre costruire una grossa rete, fare investimenti infrastrutturali: è il caso degli Apple Store, che non si possono improvvisare. Oltre a trovare lo spazio, arredarlo e assumere le persone che lavorano nello Store, occorre fare tutto il percorso di formazione, creare il backoffice, organizzare una linea di distribuzione completamente diversa. Ben sapendo che gli store vengono presi d’assalto e quindi “cominciare in piccolo” per Apple non è un’opzione.
Poi ci sono i costi di localizzazione, di infrastruttura software e di supporto, di post-vendita. Ma anche di relazione con la clientela business to business e con i partner. È meno noto, ma quando Apple ha portato l’iPhone in Italia ha dovuto avviare un dialogo oltre che con i ministeri competenti per tutte le autorizzazioni del caso, anche con tutti gli operatori per testare e verificare le compatibilità del caso con le diverse reti, e poi fare partnership per la vendita. Tutte cose che richiedono un percorso piuttosto lungo se non altro per trovare e selezionare i dipendenti italiani che abbiano le competenze giuste, fare il percorso di formazione e allineamento e via dicendo.
Dal punto di vista organizzativo e decisionale sono operazioni costose che richiedono investimenti di avvio consistenti e l’azienda, come tutte le multinazionali, si dà un budget e delle priorità in termini di ampiezza di mercato. E l’Italia è una economia di grandi dimensioni in Europa ma viene decisamente dopo il Regno Unito, la Germania e la Francia. Siamo nel pacchetto con Portogallo, Spagna, Belgio, Grecia e via dicendo. Con la differenza che la Spagna su alcuni servizi ha la priorità quando l’investimento è prevalentemente linguistico, perché ci sono anche altri paesi al mondo che parlano spagnolo.
Il problema con l’Apple Intelligence
Quando arriviamo all’intelligenza artificiale in generale e alla Apple Intelligence in particolare, si aprono poi una serie di nuovi problemi di natura tecnica per giustificare il ritardo nella presentazione dei prodotti sul campo.
Il primo e già indicato prima è la presenza del personale formato e della catena dell’organizzazione interna allineata nel modo appropriato: traduzioni effettuate, tecnici formati, venditori formati, software in italiano aggiornati, pagine web aggiornate e tutto il resto. È un processo che sappiamo per esperienza essere lungo e che oltretutto viene artificialmente rallentato per evitare anche fughe di notizie.
Questo perché chi prepara la versione italiana delle pagine web con i contenuti dei nuovi prodotti vede sostanzialmente le novità con settimane e settimane di anticipo. Le fughe poi ci sono lo stesso (a quanto pare Bloomberg ha la capacità di mettere le mani su un sacco dei cose prima che avvengano e fa arrabbiare parecchio Apple) ma almeno non vengono dalle traduzioni.
Poi, c’è il problema della capacità dei server. Apple con AI lancia un nuovo servizio che si appoggi su nuovi server cloud alla bisogna, completamente costruiti dall’azienda e dotati di processori Apple Silicon M2 potenziati. Per fare questo è necessario che la capacità ci sia, perché l’aggiornamento software che abilita Apple Intelligence rischia di essere un inferno dal punto di vista delle centinaia di milioini di dispositivi già esistenti e quindi dei miliardi di persone che vorranno subito provare tutto. “Chiudere” gli spazi riducendo le geografie che hanno accesso al servizio limita i problemi sui datacenter.
Va anche sottolineato al riguardo che, per quanto ne sappiamo, Apple non ha datacenter, almeno non di questo tipo, in Europa, e quindi si pone un tema piuttosto rilevante di “edge computing”: avere le risorse di calcolo vicine a chi le utilizza. I ritardi nei calcoli che vengono spostati sui server negli Usa e poi riportati in Europa, soprattutto in momenti di grande congestione nei datacenter americani e in generale nelle reti intercontinentali, sono un mal di testa che qualunque sistemista evita se possibile. Ma c’è di più.
Le leggi
C’è anche una problematica legislativa che non deve essere sottovalutata. In particolare un problema normativo e legale che con funzioni come Apple Intelligence diventa particolarmente evidente. Qui si parla di trattamento di dati personali che derivano da quello che l’Ai sente, vede e legge.
Anche se Apple sottolinea la cura per la privacy, c’è una rete di regolamenti e di disposizioni che sono totalmente differenti per ciascun paese. In Europa questo spinoso aspetto viene mitigato dal mercato unico che comunque ha piattaforme differenti da quelle americane, ma restano sempre gli enti nazionali a dire la loro.
Apple Intelligence deve essere perfettamente conforme nella struttura tecnica e in quel che fa all’orizzonte dove si colloca: l’Europa non è la Cina (dove in effetti Apple potrebbe avere bisogno di un partner locale per lanciare Ai) ma Apple non può prendere sottogamba la prospettiva di vedere i servizi bloccati magari dopo che qualche associazione o qualche governo notasse qualche cosa che, a torto o a ragione, non funziona.
Il vero problema dell’addestramento
Ma sullo sfondo c’è un altro problema, potenzialmente molto, molto più grande: la capacità di Ai di comprendere quel che diciamo e scriviamo. Non parliamo di semplice “traduzione” ma di un sistema che è in grado di incrociare il senso delle parole e la semantica, lettura della sintassi magari non precisa, della voce e delle inclinazioni regionali. Per non parlare della cultura specifica di quel paese che ha un suo peso.
Come sappiamo Apple presenta una pletora di servizi differenti basati su diversi modelli fondativi sviluppati internamente. Il problema di questi modelli, soprattutto dell’addestramento degli LLM (i Large Language Models) è che sono culturalmente connotati. Dipendono dal tipo di materiale che viene usato: sia la lingua che l’impostazione di base.
Non a caso la ricerca di modelli fondativi non madrelingua inglese è molto sentita soprattutto da quei Paesi che si stanno rendendo conto che i maggiori limiti di comprensione ed espressione dei vari ChatGPT, Gemini e Copilot derivano anche dall’incapacità di capire sino in fondo una cultura (italiana, francese, tedesca, spagnola) rispetto a quella base su cui sono stati addestrati (anglosassone).
Gli attuali modelli di Apple, come abbiamo visto, son ancora più ambiziosi di quelli di altri servizi perché mirano ad avvicinarsi moltissimo all’utente e “chiudersi” attorno alla persona, ai suoi dati, alla sua sfera privata. Per fare questo occorre che ci sia la possibilità di comprendere non solo i fenomeni linguistici di base, ma mettere a sistema anche le complessità più connotate culturalmente.
Il materiale che Apple usa per l’addestramento e tutte le fasi di post-addestramento, rinforzo e fine tuning sono estremamente costose in termini di performance, uso dei server e disponibilità degli ingegneri dell’AI giusti. E sensibili al singolo contesto culturale. Quindi c’è da ragionare sul fatto che probabilmente Apple, per avere dei risultati in altre lingue all’altezza di quello che sta cercando di fare in inglese, dovrà utilizzare la medesima cura ripetendo sostanzialmente il processo da capo o quasi. Altrimenti, come per ChatGPT e gli altri, si troverà una AI che parla altre lingue oltre all’inglese benissimo ma sempre con il velo del fatto che sono “seconde lingue” e che in pratica sta traducendo avanti e indietro dalla sua “lingua interna” che è l’inglese.
È un bel problema, sia dal punto di vista linguistico che informatico che culturale. E a logica dovrebbe essere la ragione più profonda e vera del perché l’arrivo di Apple Intelligence negli altri paesi non madrelingua inglese sarà più lungo. E, temiamo noi viste le dimensioni del nostro mercato, in Italia ancora più lungo. Motivi comprensibili ma non per questo che ci rendono felici.