Pronti via: alla cerimonia di accensione dell’Apple I di questa mattina al Politecnico di Torino, l’ultimo prodotto di Infinite Loop (il Macbook Air) è pronto a passare l’interprete basic al suo progenitore per dare il via alla dimostrazione. Eppure… non succede niente. La macchina si è accesa, ma serve caricare una seconda volta il software originalmente presente sull’audiocassetta in dotazione.
Nessun errore dei tre tecnici che si sono occupati della storica riaccensione, solo un piccolo inconveniente (risolto in pochi minuti) che per coloro che hanno vissuto quell’epoca pionieristica era una cosa di ordinaria amministrazione. E forse, infondo, il vero “bello del gioco”, perché citando Jobs: “il viaggio è la ricompensa”.
Oggi che, proprio grazie ad Apple, i computer sono per “il resto di noi” che non sa programmare, il rischio che si corre è esattamente l’opposto: che si perda, anche nei politecnici e nelle facoltà scientifiche, una cultura informatica di base che oltre al semplice utilizzo, sappia guardare anche alla comprensione vera della macchina. Un rischio evocato dal prof. Angelo Meo, primo docente universitario in Italia ad insegnare informatica.
Meo, nel suo intervento, ha poi ripercorso la strada che, a partire dagli anni ’60 ha portato all’evoluzione delle macchine fino proprio all’Apple I. Strumenti composti di memoria magnetica e per i quali era necessario programmare in codice macchina (0 e 1), condizione che permetteva di innescare un certo rapporto tra l’uomo e la macchina, e di esaltare il ruolo del programmatore, oggi messo un po’ in ombra e in subordine dagli attuali, sofisticati, pc.