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La saga dell’iPhone [1]

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Era una mattina nebbiosa, ma una nebbia fatta da quelle nuvole che volano basse sopra San Francisco. E una mattina quasi fredda, come accade raramente a gennaio nella città  della Baia. Il vostro cronista si era intrufolato, unico italiano, dentro un accesso laterale del Moscone Center, aveva appena messo le mani sul gioiello dei gioielli annunciato poche ore prima da Steve Jobs, l’iPhone, e adesso si trovava di nuovo fuori, a guardare la gente che passava nelle strade di San Francisco. E pensava.

Quello che aveva appena avuto la possibilità  di vedere, toccare e provare brevemente era la materializzazione di un sogno che tutti o quasi gli appassionati di Apple avevano portato avanti per anni. Soprattutto gli Europei, dove il telefono cellulare ha avuto da molto più tempo che non negli Usa fama e diffusione. Il sogno di un telefono con la Mela. E quel sogno si era appena incarnato.

Un sogno fatto in realtà  come nessuno l’aveva immaginato. Puro frutto della capacità  di Steve Jobs, di Jonathan Ive e degli altri ingegneri di Apple di stupire anche quando giocano la carta di quello che tutti hanno previsto, che tutti hanno immaginato, che tutti hanno intuito. L’iPhone, tre apparecchi in uno (telefono, Internet, iPod), era radicalmente diverso dai bozzetti e dalle idee pensate e immaginate da anni su Internet. E molto meglio.

Il vostro cronista ripercorreva con la sua (peraltro scarsa) memoria visiva i bozzetti preparati negli anni ad esempio dal noto designer giapponese che riempie di progetti e macchine immaginifiche il sito Applele. Tastiere rotondeggianti, iPod a slitta con tastiera sottostante, forme e fogge anche belle sulle quali una Motorola o una Nokia qualsiasi sarebbero andate avanti per anni. Tutto superato in un lampo da una tecnologia che nessuno si era aspettato di veder arrivare sui telefoni cellulari. Lo schermo multitouch. Era una sorpresa, perché insieme alla propensione di Steve Jobs per le scelte radicali e senza compromessi, rompeva in maniera netta con il passato.

Si erano già  visti una montagna di apparecchi con lo schermo touch, pensava il cronista camminando verso l’entrata principale del Moscone Center da dove sarebbe potuto entrare nella sala stampa. L’attendeva una prova di tutto rispetto: scrivere il pezzo di una vita, la storia perfetta. Come ti provo l’iPhone di cui tutti parlate ma che solo io (in Italia) ho provato.

la prima galleria iPhone

E il cronista pensava. Di schermi touch se n’erano già  visti a bizzeffe, con pennini di varia foggia e con gente che si inventava unghie da chitarrista per poterli usare più velocemente e senza bisogno di tirar fuori lo stilo. Di schermi touch se n’erano già  visti a sacchettate, con cinque, sei, anche otto bottoni intorno, per accedere rapidamente a tutte le funzioni e servizi “più rapidamente”. Di schermi touch se n’erano già  visti a montagne e nessuno che riuscisse a dare soddisfazione a chi lo usava, vuoi per i sistemi operativi monchi e incompleti, vuoi per il fatto che quel che li muoveva era una versione nanoscopica di interfacce nate per tutt’altro mondo e dimensioni.

L’iPhone di Apple aveva questa cosa unica e sconvolgente: uno schermo multitouch. Uno schermo che lo usavi con due dita. Uno schermo che lo ruotavi e anche lui ruotava i suoi contenuti. Non sempre ma quasi. Uno schermo nitido, definito, con più pixel per pollice di qualsiasi altra cosa il vostro cronista avesse mai toccato con mano o visto prima. E l’impressione, tenendo in mano l’apparecchio e sfiorandolo, carezzandolo, pigiandolo, era quella di toccare un acquario con pesci guizzanti fatti d’argenti vivo e colorato al suo interno. Il vostro cronista era perplesso e al tempo stesso imbarazzato. La sensazione era quella di essere di fronte a un cambiamento di paradigma e non saper trovare le parole per spiegarlo, perché le parole sono fondamentali per capire i concetti e in questo caso c’era la sensazione che ancora non fossero state inventate.

In quel gennaio del 2007 Apple aveva appena sconvolto la sua politica commerciale. Contraddicendo anni di negazionismo (l’iPod è un iPod, non sarà  mai un telefono. Nessuno vuole vedere film su uno schermo così piccolo, etc), aveva reinventato se stessa in un esercizio di pragmatismo che nasceva da una considerazione. Niente è per sempre. Neanche l’iPod dei super successi. E le tecnologie che sino a quel momento avevano reso l’iPod un vincente rispetto alla concorrenza mescolata di lettori multimediali e di telefoni intelligenti della concorrenza stavano lentamente trovando modo di consolidarsi anche sul tavolo da disegno di avversari meno dotati ma non per questo meno tenaci. Insomma, l’iPhone – pensava il cronista – arrivava prima che il declino dell’iPod diventasse troppo sensibile e lo aiutava a ripartire.

Entrando in sala stampa, nessuno tra i colleghi della stampa internazionale che non erano potuti andare a toccare con mano l’apparecchio – che in realtà  neanche sapevano che pochi fortunati lo avevano potuto toccare con mano – immaginava i pensieri che scuotevano la mente del vostro cronista. Come raccontare in poche righe un decennio di desideri, di passioni, di attese? Dalla scomparsa del Newton, voluta da Steve Jobs al suo rientro alla guida di Apple per focalizzarsi sugli apparecchi che contano per uscire dalla crisi, il popolo della Mela sperava in qualcosa di piccolo ma potente da potersi mettere in tasca. Era appena arrivato e portava con sé una tecnologia rivoluzionaria come idea: MacOs X con una interfaccia ad hoc, pensata per quel formato. E una tastiera virtuale gioia e dolore di chi, mesi dopo, avrebbe cominciato a smanettarci per guardare e rispondere le email, per gli sms, per navigare in rete, per prendere appunti o segnare un nuovo contatto.

Acceso il portatile, il vostro cronista rifletteva ancora. Come fare a raccontare la passione dei manager di Apple, che sull’iPhone si presentavano alla stampa con l’orgoglio di chi ha fatto i propri compiti alla perfezione e si aspetta un dieci e lode senza dubbi e senza tentennamenti? Come raccontare l’orgoglio di tenere in mano questo appassionante apparecchio misterioso dalle dimensioni più contenute, lungo e sottile, luminoso, compatto e solido, in una parola imperioso? Nel consueto correre rumoroso avanti e indietro di persone attraverso la sala stampa, popolata nel primo giorno del Macworld da una folla eterogenea di giornalisti provenienti da tutto il mondo, il vostro cronista con un sospiro si mise davanti al suo editor di testo preferito (TextEditor, ovviamente) e iniziò a scrivere:

Appuntamento alle sette e mezza di una fredda e nuvolosa mattina di San Francisco di fronte ad uno dei gran hotel del centro con il capo della comunicazione europea di Apple. Una rapida camminata sino ad una entrata laterale del Moscone Center, via per un dedalo di corridoi e stanze private dove si tengono riunioni e briefing insieme a pochissimi altri giornalisti europei - non più di uno per Paese - e finalmente dieci minuti per chiedere a Greg Joswiak e David Moody, due dei "grandi capi" di Apple, tutto sull'iPhone. E, soprattutto, poterlo toccare con mano per capire se l'apparecchio vale l'entusiasmo che Steve Jobs ieri ci ha messo nella sua presentazione (e che i giornali di oggi stanno mettendo nel raccontare com'è andato il keynote destinato a fare storia, secondo il fondatore di Apple).

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