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La stretta via delle AirTag di Apple

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Ammettiamolo, quando abbiamo perso qualcosa a cui tenevamo o che semplicemente ci serviva, avremmo desiderato avere un tracciamento universale che ci facesse capire dov’era. Immaginando il nostro oggetto perduto, muto, paralizzato, incapace di parlarci, di chiederci aiuto, di dirci “ehi sono qui, proprio qui dietro, mi sei appena passato davanti”.

Desideri frustrati

Vi è mai capitato? Chi scrive ricorda una estate in Versilia di tanti anni fa con i bambini piccolissimi, la più piccola ancora nel passeggino, ma già capace di lanciare qualsiasi cosa a distanza sorprendente non appena noi genitori, in realtà stanchi da notti piuttosto turbolente e di poco sonno, distoglievamo lo sguardo. Se ne accorgeva, dicevamo scherzando ma neanche più di tanto, guardandoci all’indietro con il terzo occhio sulla nuca. Non appena ci vedeva distratti, dicevamo, lanciava il giocattolo o l’accessorio di turno con la forza di uno degli spiritelli di Ghostbuster (la patata che si ingozza di wurstel, per la precisione, data anche una certa somiglianza di gioventù con le abitudini alimentari della suddetta patata).

Lanciava tutto, incluso un bellissimo gioco in legno e stoffa, regalo alquanto prezioso delle nonne e come tale ovviamente mai più ritrovato. Scomparso per sempre tra i cespugli e le aiuole della passeggiata di Lido di Camaiore (o più probabilmente finito nella borsa di qualche altro villeggiante, sostiene il cinico giornalista, ma dopo tanti anni sulla materia c’è ancora dibattito famigliare).

Fatto sta che chi scrive sognava un qualcosa di piccoli e potente che potesse segnalare la posizione dell’oggetto smarrito. Un oggetto elettronico, personale, sicuro, automatico. Era tanti anni fa, ma l’idea era quella delle AirTags. E non lo scriviamo per dire che ci avevamo pensato prima noi, perché ci aveva pensato mezzo mondo. No, lo scriviamo perché era quello di cui c’era bisogno, solo che la tecnologia non c’era ancora arrivato.

La stretta via delle AirTag di Apple

Brutti desideri

L’altra storia è meno personale per fortuna, ma ben più grave. Una ragazza braccata da un fidanzato che all’inizio era delizioso, simpatico, piacevole. Ma che poi era diventato ossessivo, geloso, possessivo. Sino a che lei, portando la macchina a fare il tagliando, non era stata informata dal meccanico che aveva una ricetrasmittente incassata dove di solito si mettono questi piccoli antifurto a batteria. Peccato che lei non l’avesse mai montato. Era stata un’idea del fidanzato, dopo poco divenuto ex e pure denunciato, che voleva sapere sempre dove lei si trovava e se effettivamente quella fosse la destinazione che gli veniva riferita. Possiamo solo immaginare (ma probabilmente non sbaglieremmo) quanto quello stalker avrebbe desiderato un piccolo oggetto da appicciare da qualche parte all’insaputa della fidanzata per poterla stalkerare sempre, fino a un anno, con la complicità di una rete infinita di dispositivi connessi.

La stretta via delle AirTag di Apple

La realtà di Apple

Apple per costruire le AirTag ha avuto bisogno di molto tempo. Annunciate due anni fa da rumors e indiscrezioni, sono una piccola, geniale idea costruita attorno un bisogno che Apple spera sia molto diffuso e a un diritto che Apple cerca di tutelare. Per questo la via delle AirTag è particolarmente stretta, come vedremo tra un attimo, ma funziona meglio delle altre.

A tenerle in mano sono piccoli confetti davanti e piccole miniature di metallo dietro. Plastica e metallo, praticamente poco più grande della batteria RS2032 che le alimenta e che è sostituibile (dopo un anno, dice Apple) dall’utente, sono capaci di farsi localizzare grazie a una rete di quasi un miliardi di apparecchi: l’ideale per ritrovare le chiavi o la borsa smarrita (o magari rubata). Ma fanno questo tutelando un diritto.

Il diritto che Apple difende e vuole tutelare non solo con le AirTags è quello della privacy. E quindi non sono un faro luminoso che “spara” un segnale a 360 gradi. Non sono neanche un meccanismo di localizzazione per le persone: non si può (e non si deve) metterle nella tasca o nella borsa di un’altra persona per seguirla e vedere dove va. Né bambini né adulti, né animali. Le AirTags si associano tramite un iPhone o un iPad a un account Apple ID e da quel momento devono restare nei pressi della persona quando si spostano, oppure parcheggiate a casa. Sennò protestano e si fanno sentire.

La stretta via delle AirTag di Apple

Il confetto del futuro

Apple ha implementato una piccola tecnologia quasi lunare, con un altoparlante statico che va in solido con il corpo del piccolo confetto, senza buchi ne feritoie per avere una certificazione tale da resistere a spruzzi d’acqua e brevissime immersioni (per la precisione: AirTag resiste agli schizzi, all’acqua e alla polvere; è stato testato in laboratorio in condizioni controllate, con un rating di grado IP67: profondità massima di 1 metro fino a 30 minuti, secondo lo standard IEC 60529).

Il meccanismo di ricerca dell’apparecchio è semplice, si basa sull’app di Apple Dov’è che permette di localizzarle. Non c’è niente che non torni nel piano di Apple: da un lato il segnale Bluetooth è fatto in modo tale da non poter essere seguito da terzi perché cambia identificatore casualmente a rotazione, dall’altro la rete infinita di dispositivi Apple connessi nel mondo (un miliardo, pazzesco) permettono di avere la relativa certezza che se si perde una borsa con l’AirTag dentro faccia capolino. E la procedura di avvertimento nel caso si sia seguiti da una AirTag si trasforma in un “allarme” che viene percepito sia dai possessori di iPhone che di Android.

La stretta via delle AirTag di Apple

Eccezioni e regole

Ci sono moltissime cose da dire sulle AirTag. Questa però non è una recensione ma una riflessione. Apple non solo sta proponendo un oggetto che serve per tenere traccia di alcune delle cose a cui teniamo (Apple prevede, nell’ordine: bicicletta, borsa, chiavi, cuffie, fotocamera, giacca, ombrello, portafogli, valigia, zaino oppure altri nomi personalizzati) ma sta fornendo anche una cornice che spiega come secondo lei questo tipo di cose si fanno per bene.

È una cornice che stabilisce delle regole e soprattutto delle priorità. Per non renderli oggetti capaci di spiare il prossimo, le AirTags non hanno la funzione di segnalatore del cane o dei bambini piccoli. Perché si potrebbero usare anche per segnalare gli spostamenti di persone adulte (o di cani e di bambini di altri). Non hanno la possibilità di essere attivate indiscriminatamente, agganciate a qualsiasi oggetto, lasciate ovunque. Non funzionano così. Perché c’è un principio, che per semplicità chiameremo diritto alla privacy, che fornisce la cornice.

È anche il motivo per cui Apple si è sforzata di rendere le stesse AirTag intracciabili: non si può vedere dove va la persona che le indossa, o le sue chiavi e il suo bagaglio, seguendo la traccia di un identificatore bluetooth che potrebbe essere associato truffaldinamente al suo proprietario, perché questo numero cambia. E la stessa rete di dispositivi che fa da relay del segnale è anonimizzata in entrambe le direzioni.

All’interno di questo standard, di questa cornice di doppia sicurezza, trovare le soluzioni è più complesso e più costoso rispetto a quello che possono fare altri. Certo, le AirPods non sono state messe nel nuovo telecomando con Siri di Apple Tv, e sicuramente hanno altre mille cose che non si possono fare. Ma sono a nostro avviso state pensate in modo saggio. Avendo cura di tutelare l’interesse dei più deboli e dei più indifesi, cosa che non era per niente scontata, fornendo al tempo stesso uno strumento utile.

Per adesso per le chiavi di casa, nel caso di chi scrive, ma più avanti quando si potrà viaggiare di nuovo anche della valigia e della borsa, e magari della bicicletta, perché no. Non ci avevamo ancora pensato, ma è una buona idea. Però quel vecchio giocattolo perduto a Lido di Camaiore, rimarrà sempre una leggenda: se ci fossero state le AirTag, diranno alla nipotina le cyber-nonne quest’estate, non l’avresti perso.

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