Dopo cinque anni di controversie legali su vari livelli, Google è stata condannata a pagare 20 milioni di dollari a due sviluppatori i quali affermano che il browser Chrome viola tre loro brevetti relativi alla funzionalità di sandboxing sfruttata dal programma di navigazione web di Big G.
La tecnica di sandbox, lo ricordiamo, fa in modo, che ogni applicazione (in questo caso le schede del browser) resti nei propri confini d’azione all’interno del sistema operativo. Il sandboxing isola le schede dai restanti componenti di sistema, dai dati e dalle altre applicazioni. Apple sfrutta un meccanismo di questo tipo in OS X: se un’app viene manomessa da un software pericoloso, il sandboxing la blocca automaticamente per tutelare il computer e le informazioni. In Safari, per esempio, macOS fa sì che il PDF viewer integrato e plug-in come Adobe Flash Player, Silverlight, QuickTime e Oracle Java vengano eseguiti in ambiente protetto. macOS estende questa funzione anche ad app come Mail, Messaggi, FaceTime, Calendario, Contatti, Foto, Note, Promemoria, Photo Booth, anteprime di Visualizzazione rapida, Game Center, Dizionario, Libro Font e il Mac App Store.
Tornando alla controversia con Google, questa è nata nel 2012, anno nel quale Big G aveva avuto la meglio nel primo verdetto, perdendo però in appello. La Corte Suprema ha rifiutato la presentazione di istanze e la questione è tornata alla Corte Distrettuale del Texas orientale, patria dei patent troll che hanno chiesto il risarcimento. Google deve non solo pagare 20 milioni di dollari per i diritti sullo sfruttamento del brevetto ma dovrà continuare a farlo anche in futuro finché il browser continuerò a sfruttare il meccanismo di protezione contestato.