Vi ricordate “Il piccolo Buddha”? È un film del 1993 di Bernardo Bertolucci, che era reduce dal successo stellare de “L’ultimo Imperatore”. Nel film una famiglia americana di Seattle (marito, moglie, un po’ di problemi economici e Jesse, un bambino di dieci anni molto sveglio) viene messa di fronte alla possibilità che il loro unico figlioletto sia la reincarnazione del lama Dorje. Anziché mandare a quel paese il drappello di monaci vestiti di arancione, li ascoltano (prima la moglie e poi sorprendentemente il marito, che andrà fino in India a fare le prove definitive per riconoscere la possibile reincarnazione) mentre in parallelo scorre con flashback colorati e di straordinaria intuizione cinematografica la storia dl Siddhartha interpretato da uno spettacolare Keanu Reeves. In questo film Vittorio Storaro dà forse il meglio nella cura della fotografia e la storia di rispetto e ascolto di culture, spiritualità e religioni diverse ha un epilogo sorprendente nel monastero di Paro con il caso di una reincarnazione triplice, con attributi dell’anima del vecchio lama Dorje ricercato con passione dall’anziano (e morente) lama Norbu, in tre bambini contemporaneamente: in Jesse, in Raju (un bambino di Kathmandu) e in Gita, una bambina che vive in un altro villaggio indiano.
Ecco, lunga premessa cinematografica per offrire un momento di rispetto e di sensibilità interculturale a una notizia che altrimenti porterebbe facilmente a far sorridere e a far dire che siamo di fronte a una banda di poveri sciroppati. Invece, forse saranno anche sciroppati, ma almeno dovrebbero essere innocui e in buona fede. Veniamo ai fatti: Steve Jobs com’è noto è morto. E non è un mistero il fatto che si fosse avvicinato a quelle che genericamente definiamo “religioni orientali”, anche se in realtà non praticava un culto ma semplicemente partecipava a una filosofia appartenente al grande ceppo del Buddhismo, movimento di pensiero e spiritualità di un migliaio di anni più antico del cristianesimo. Ebbene, uno degli uomini di Apple, l’ingegnere del software Tony Tseung, subito dopo la scomparsa di Steve Jobs ha spedito una mail a un gruppo buddista in Thailandia che si chiama Dhammakaya per cercare di capire se Steve Jobs si fosse in effetti ancora fermato nel ciclo del Samsara e reincarnato (come la dottrina buddhista prevede) in una nuova persona su questa Terra, oppure se si fosse disciolto nell’Unità definitiva del Nirvana.
I religiosi, dopo accurati studi, sono arrivati a spedire una email di risposta al nostro ingegnere del software: Steve Jobs si è reincarnato e, grazie al buon Karma accumulato, è di nuovo tra noi ma in una figura particolare: un guerriero-filosofo celestiale, il mitico individuo che vive in un palazzo mistico tutto di cristallo che galleggia invisibile al di sopra del suo ufficio a Cupertino e che ricorda un Apple Store.
Ok, detta così è un po’ difficile dare credito e gestire lo scetticismo tutto occidentale nei confronti della mistica del Dhammakaya. Phra Chaibul Dhammajayo, che è il priore del tempio Dhammakaya subito a nord di Bangkok, sostiene che “Subito dopo la dipartita di Steve Jobs il suo spirito si è reincarnato in un essere divino con una conoscenza e capacità di comprensione speciale per le scienze e le arti”. La cosa singolare è che il religioso thai sostiene questo non solo privatamente e nelle email spedite all’ingegnere del software di Cupertino, ma anche in sermoni che vengono trasmessi per televisione in tutto il mondo alle comunità di fedeli buddhisti, intervallandole con richieste di contributi economici e di offerte di qual si voglia genere.
E il buon Phra Chaibul non fa niente per corroborare una qual credibilità o possibilità di accettare quanto va dicendo. Anzi, per rendere l’atto di fede ancora più tosto da digerire, aggiunge particolari davvero singolari, come quello secondo il quale l’essere che un tempo era conosciuto come Steve Jobs sarebbe assistito nel suo Apple Store celeste di cristallo da una ventina di servitori vestiti in una maniera tale da ricordare fin troppo bene i commessi dei Genius Bar negli Apple Store.
I monaci e gli abati buddisti sono spesso notati per il senso dell’umorismo singolare, per la capacità di pensare fuori dalle cornici tradizionali e in generale per un certo senso di misticismo asiatico legato al non-sense che il pregiudizio occidentale gonfia con un disincanto proprio dell’uomo razionale figlio dell’Illuminismo e della rivoluzione francese. Tuttavia, in questo caso non parliamo in generale ma siamo sullo specifico di fronte a una particolare esperienza spirituale e religiosa: il tempio di Wat Phra Dhammakaya è stato fondato di recente, nel 1970 e il sottostante movimento buddista thailandese è legato alla figura carismatica di Phra Monkolthepmuni (Phra è un titolo onorifico), e ha dimostrato di essere la setta buddhista più rapidamente in crescita in Thailandia. Non aliena da polemiche e anche scandali e accuse pubbliche (peculato, sfruttamento, evasione fiscale), anche se negli ultimi anni il presidente della Fondazione alla base del movimento, tal Luang Phaw Dhammajayo, è riuscito a far buona stampa e a produrre un netto cambiamento di immagine internazionale per la setta. Soprattutto, il movimento si è espanso al di fuori dei confini della Thailandia, arrivando in una ventina di paesi e sfruttando un oculato investimento utilizza la televisione e il network buddhista Dhamma Media Channel per trasmettere da un canale attivo 24 ore al giorno in tutto il mondo.
Ecco, detto tutto questo, il quadro di come uno dei monaci anziani, un priore della setta, abbia deciso di attirare l’attenzione delle persone forse più semplici e devote al culto utilizzando immagini contemporanee, succhiate letteralmente dagli archetipi dell’inconscio collettivo junghiano al quale Apple e Steve Jobs oramai appartengono, giocando anche sul fatto noto delle pratiche buddhiste dello stesso Steve Jobs, il quadro dicevo si può leggere come un tentativo di chiamare pubblicità gratuita, circonvenzione d’incapaci nella comunità dei fedeli o – ancora di più – in un modo per secolarizzare e metabolizzare nella dimensione immaginifica e metaforica dello spirituale e del trascendente un fenomeno molto terra-terra (la scomparsa di un imprenditore e capitano d’industria tra i personaggi più noti del pianeta) che fa presa e ha una sicura eco nella mente di chi ne sente parlare.
Per dire: negli anni Sessanta scrittori di fantascienza come J. G. Ballard e Philip K. Dick tra gli altri avevano immaginato società future in cui si sarebbero adorati come semi-dei o come creature speciali personaggi della cronaca di oggi: sportivi, politici, uomini d’affari. Forse, nella semplicità fin troppo furba del buon Phra Chaibul Dhammajayo, si precorrono un po’ i tempi, ma la pulsione e l’intenzione potrebbero essere quelle. Chissà. Il discorso si potrebbe fare complesso, e spaziare dal buddhismo allo spirito di religiosità nelle diverse accezioni culturali, dal capitalismo-spettacolo della nostra società con i suoi testosterone-Ceo, al ruolo del leader carismatico e consolatorio, il Gran Mago (come l’Economist aveva definito Steve Jobs) e alla storia nietzchiana incarnata da Napoleone o all’individuo cosmico-storico di Hegel e alla self-reliance di Ralph Waldo Emerson (questo sì, con tutta probabilità, un pensatore che ha influenzato in maniera profonda Steve Jobs).
Il discorso si farebbe sì complesso e vale per spiegare anche quel che sosteneva lo strutturalista Claude Lévi-Strauss, uno dei più grandi antropologi e filosofi del nostro tempo ne La Pensée Sauvage, e cioè che la complessità del pensiero e delle relazioni, delle mitologie e della struttura sociale è una costante dell’umanità, a prescindere dal grado di sviluppo o di elaborazione del pensiero formale. Vale tutto e non vale più nulla. Dopo la scomparsa di Steve Jobs, guardiamo con un sorriso a un altro fra i tanti che cercano di speculare e guadagnare un po’ di celebrità letteralmente sulla scomparsa del fondatore di Apple. E auguri, che buon Karma gli faccia.
Ringraziamo Fabio D’Amico per la segnalazione.