Il Roskomnadzor (“Servizio federale per la supervisione delle comunicazioni, della tecnologia dell’informazione e dei mass media”) – agenzia federale russa che si occupa di monitorare e controllare l’accesso ai mass media – prevede di spendere 59 miliardi di rubli (circa 584 milioni di euro) nei prossimi cinque anni per aggiornare sue infrastrutture che consentono di filtrare il traffico internet nella Federazione.
La notizia è riportata nell’edizione russa di Forbes, spiegando che l’importo sarà sfruttato per aggiornare l’hardware che consente di filtrare il traffico internet, ma anche di bloccare o rallentare determinate risorse.
Nel 2019 Mosca ha approvato un piano che dovrebbe permettere di bloccare internet affidandosi totalmente a una rete informatica interna denominata Runet, una scelta che dovrebbe permettere allo Stato transcontinentale di mantenere la propria sovranità digitale. Dopo l’invasione dell’Ucraina, il Cremlino ha bloccato l’accesso a vari social media e siti internet ma i più esperti riescono a bypassare il problema usando VPN (app che consentono di creare una connessione di rete privata tra dispositivi su Internet, camuffando gli indirizzi IP dell’utente e crittografando i dati in modo che non possano essere letti da chi non è autorizzato a riceverli)
L’aggiornamento delle infrastrutture al quale si fa ora riferimento dovrebbe permettere di bloccare molti degli accessi al momento possibili solo sfruttando le VPN.
Da luglio di quest’anno le VPN sono sparite dall’App Store russo. Il blocco delle VPN, iniziato da tempo anche con operazioni che hanno colpito Google e con una campagna di disinformazione sul loro funzionamento, fa parte della stessa politica. Der resto fin dal 2016 con la famigerata legge Jarovaja (dal nome della deputata di Russia Unita, il partito di Putin e del premier Medvedev, che l’ha presentata), il digitale è nel mirino delle autorità russe.
I fornitori di Internet ISP sono obbligati a conservare il traffico degli utenti e archiviare il contenuto di tutte le comunicazioni per sei mesi, inclusi i relativi metadati per tre anni. I servizi che sfruttano sistemi cifrati, dalle chat ai social network, sono obbligati a garantire una ‘backdoor’, cioè un accesso, alle forze di sicurezza.
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