Il fisco italiano ha inviato a LinkedIn, Meta e X richieste di pagamento dell’ IVA per oltre un miliardo di euro. Lo riferisce Reuters spiegando che l’Italia ha richiesto alle aziende in questione il pagamento di imposte sul valore aggiunto, a conclusione di un’indagine avviata nei mesi passati per frode fiscale.
Da tempo era noto un procedimento nei confronti di Meta e X; non erano note invece indagini riguardanti LinkedIn. Queste richieste, secondo Reuters, potrebbero avere ripercussioni in tutta Europa, come riferito all’agenzia di stampa da fonti “diretta conoscenza della questione”.
Repubblica spiega che l’indagine alla quale si fa riferimento riguarda la gestione dei dati personali degli utenti. Le richieste per l’ IVA sono di 887,6 milioni di euro (961 milioni di dollari) a Meta, 12,5 milioni di euro a X e circa 140 milioni di euro a LinkedIn, per un totale di 1,04 miliardi di euro. La notifica dell’accertamento fiscale riguarderebbe solo gli anni per i quali le richieste sono destinate a scadere: il 2015 e il 2016.
Un portavoce di Meta ha dichiarato che l’azienda ha “collaborato pienamente” con le autorità rispetto agli obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale e continueremo a farlo”. E ancora: “Prendiamo sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo. Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’IVA”.

Oggetto del contendere è la “sinallagmatica”, il consenso implicito di un contratto a obbligazioni corrispettive, quello cioè nel quale ogni parte assume l’obbligazione di eseguire una prestazione in favore delle altre parti, esclusivamente in quanto tali parti a loro volta assumono l’obbligazione di eseguire una prestazione in suo favore.
Per i giudici, spiega ancora Repubblica, acconsentire all’uso dei propri dati in cambio di un accesso gratuito a un servizio è di fatto un contratto.
“Vuol dire che in quanto contratto prevede uno scambio di qualcosa. L’accesso a un servizio in cambio dei dati. Dati che diventano quindi una merce. Che chi ne entra in possesso dopo l’iscrizione usa per farci dei soldi tramite la pubblicità”.
“Uno scambio (quello tra utente e piattaforma) gratuito, ma che comunque consente a Meta (o chi per essa) di trarne un profitto. Una tesi potenzialmente dirompente. Perché equipara il dato a una merce e che come tale il suo utilizzo per fini commerciali deve essere sottoposto a tassazione. In pratica l’ipotesi della Procura è che i dati personali siano un controvalore alternativo rispetto al denaro. E con quel controvalore Meta si fa pagare dagli utenti”.
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