L’iPhone americano? Servono montagne di soldi, una folla di operai, anni di tempo… e un miracolo. È la sintesi che emerge dall’ultima inchiesta del Wall Street Journal, che torna a occuparsi di un tema centrale nel confronto geopolitico ed economico tra Stati Uniti e Cina: è davvero possibile costruire gli iPhone negli Stati Uniti, come vorrebbe l’amministrazione Trump?
Il quotidiano finanziario statunitense, pur tra distinguo e puntualizzazioni, arriva a una conclusione netta: riportare in patria la produzione dell’iPhone è, almeno per ora, un’impresa impossibile.
«Costruire l’intero stack di componenti e assemblarlo negli Stati Uniti? Impossibile», afferma Gary Gereffi, professore emerito alla Duke University. La ragione, spiega, sta nella straordinaria complessità della filiera globale, frutto di decenni di specializzazione industriale.
L’iPhone è un mosaico tecnologico composto da oltre 40 componenti principali provenienti da tutto il mondo, molti dei quali prodotti in Asia. Chip da Taiwan, display dalla Corea del Sud, fotocamere dal Giappone: «Gli Stati Uniti non hanno né l’infrastruttura né l’esperienza tecnica per fare la stessa cosa», aggiunge Gereffi.
Nel migliore dei casi, Apple potrebbe tentare di spostare parte della produzione in Nord America, coinvolgendo Messico e Canada. Ma anche in uno scenario più realistico, i componenti chiave continuerebbero a provenire da Asia ed Europa. «Ci vorrebbero almeno tre o cinque anni per avviare una produzione interna significativa», conclude Gereffi.
Oltre alla provenienza dei componenti, il vero nodo resta l’assemblaggio. Foxconn, il principale partner industriale di Apple, impiega centinaia di migliaia di operai nella sola Zhengzhou, in Cina.
Lo conferma anche Tinglong Dai, professore alla Johns Hopkins University: «Abbiamo una grave carenza di manodopera e abbiamo perso l’arte della produzione su larga scala». Anche le fasi più delicate, come il cablaggio interno o il montaggio dei microcomponenti, non sono facilmente automatizzabili. «Possiamo comprare i macchinari, ma non abbiamo abbastanza persone in grado di usarli», aggiunge.
Negli Stati Uniti, mancano anche le competenze tecniche avanzate. Già nel 2017, Tim Cook sottolineava: «Negli Stati Uniti non riusciamo a riempire una sala con tecnici degli stampi. In Cina possiamo riempire più stadi con degli ingegneri».
A rendere la Cina insostituibile c’è anche un altro fattore: il bacino di manodopera migrante, stimato tra 300 e 500 milioni di persone, che si spostano stagionalmente dalle campagne alle aree industriali. Durante i periodi di picco, come il lancio degli iPhone in autunno, Apple riesce a produrre fino a un milione di dispositivi al giorno, ognuno composto da circa 1.000 componenti. Una scala produttiva che nessun altro paese, al momento, può permettersi.
Il caso Foxconn in Wisconsin
Trump dovrebbe avere ben chiare le difficoltà di localizzare impianti di produzione intensiva nel campo dell’elettronica di consumo. Un precedente emblematico è il caso Foxconn in Wisconsin.
Nel 2017 come ricorda il NyTimes, durante il suo primo mandato, l’azienda taiwanese – storico partner di Apple – annunciò la costruzione di un mega stabilimento da 13.000 posti di lavoro per la produzione di display. Doveva essere il simbolo del ritorno della manifattura negli USA.
La realtà, però, è stata ben diversa: oggi la struttura impiega appena 1.000 persone.
«I costi erano da quattro a cinque volte superiori rispetto alla Cina», ha spiegato Jeff Fieldhack, research director di Counterpoint Research. E secondo lo stesso analista, oggi un’iniziativa del genere sarebbe ancora più lontana: tra nuove tariffe, rincari su materie prime e complessità logistiche, i tempi e le condizioni per riportare in America una produzione simile sembrano tutto tranne che maturi. «È molto più lontano nel tempo ora», ha dichiarato Fieldhack.
Nessuna via d’uscita semplice
Tutte queste considerazioni trovano conferma nei fatti: Apple, nonostante le promesse, durante la precedente amministrazione Trump non ha compiuto alcun passo concreto per spostare la produzione negli Stati Uniti. E non per mancanza di volontà politica o risorse, ma perché farlo è tecnicamente ed economicamente irrealizzabile.
Nel 2017, Trump dichiarava che Tim Cook si era impegnato a costruire “tre grandi e bellissimi impianti” in America. Di quegli stabilimenti non si è mai vista traccia. E nonostante l’attuale annuncio di un investimento da 500 miliardi di dollari per il rafforzamento della produzione americana, nessun progetto concreto sembra giustificare quella cifra, che molti analisti considerano una mossa mediatica più che industriale.
Nel frattempo, i fornitori cinesi nella catena Apple sono triplicati tra il 2012 e il 2023, a dimostrazione del fatto che, anziché allentarsi, i legami con la Cina si sono rafforzati.
Con i dazi che colpiscono ora anche paesi alternativi come Vietnam (46%) e India (27%), le vie di fuga si assottigliano sempre di più. E con l’ultimo aggiornamento – dazi portati oggi al 124% sui prodotti cinesi – Apple si trova in un vicolo sempre più stretto.
Le nuove misure potrebbero costare ad Apple fino a 40 miliardi di dollari l’anno in profitti, mentre la capitalizzazione è già crollata di oltre 1 trilione di dollari dai massimi di dicembre.
A questo punto, appare sempre più difficile che Apple riesca a evitare un aumento dei prezzi degli iPhone. Produrre in Cina, con tutte le complicazioni del caso, resta comunque più sostenibile, come abbiamo spiegato anche in questo articolo, che costruire negli Stati Uniti, dove – secondo Wedbush – un iPhone potrebbe arrivare a costare fino a 3.500 dollari.
Prima di arrivare a quel punto, Tim Cook potrebbe ancora giocare la sua carta più forte: l’attendismo. Attendere, spostare, ottimizzare, cercare alleanze, evitare lo scontro diretto. Una strategia che in passato ha funzionato. Ma oggi, la pressione politica, industriale e finanziaria è più alta che mai.
Apple è al centro di una guerra commerciale senza vie d’uscita semplici. E ogni scelta, da ora in poi, avrà un prezzo.