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Gli infedeli dello streaming arrivano in Italia

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Chiamatelo se volete libertinaggio digitale, infedeltà online, patologico rifiuto dei legami: non stiamo parlando di relazioni sentimentali, a meno che non lavortiate nel marketing e pensiate che l’amore per un brand sia quella cosa a cui in realtà pensavano tutti sin dai tempi dei trovatori occitani: invece, si parla di servizi di streaming e di quelli che, in mancanza di definizioni migliori, possiamo solo definire “spettatori di fatto”.

Un pubblico che, anziché creare un legame solido e permanente con una testata o un canale, dimostra invece il massimo dell’infedeltà e accende e spenge le sottoscrizioni a questo o quel canale per sfruttare al massimo le opportunità e promozioni varie, minimizzando le spese.

È frutto del libero mercato. In America è già un fenomeno, se ne è occupato anche il New York Times. Da noi le dinamiche (per adesso) sono diverse, ma è facile lavoro di profezia giornalistica immaginare che presto, a meno che l’antico vizietto nostrano del fare cartello non prevalga, si apriranno le stesse dinamiche. Ma di cosa stiamo parlando? Facile, delle conseguenze dell’abbondanza di piattaforme e delle offerte nel mercato dello streaming.

Gli infedeli dello streaming arrivano in Italia

Troppa grazia, Sant’Antonio

Cominciamo dalla cosa più semplice. Negli Usa i servizi di streaming sono più di una trentina. Non stiamo parlando del livello di Netflix o di Disney+, di Apple Tv+ o di Prime Video di Amazon. Neanche di Paramount+. Aziende che spendono letteralmente miliardi per produrre edizioni originali destinati al video oppure che hanno cataloghi infiniti di blockbuster, come li chiamavano una volta.

No, qui stiamo parlando soprattutto di servizi tematici o regionali, nati dall’attività di imprenditori e piccoli gruppi di comunicazione che possono permettersi di mettere su un servizio di streaming perché al giorno d’oggi le tecnologie e i costi industriali sono molto ridotti, e scommettere su piccoli cataloghi ritagliati per pubblici particolari.

prime video collage

La Tv di una volta, spiegata bene

È un po’ la storia della televisione rivista a velocità 2x. La Tv era nata negli anni Cinquanta con pochissimi canali, pubblici in Europa e privati negli Usa, che poi si erano pian piano accresciuti ma sempre in regimi molto controllati. Negli Usa dai costi industriali, che avevano creato la rete dei network (tante emittenti locali collegate a un servizio di broadcast) e in Europa dalla prima ondata di televisioni libere negli anni Ottanta e poi dal duopolio Rai-Mediaset nel nostro Paese e situazioni di stallo appena più pluraliste nel resto dell’Europa continentale.

Una delle barriere erano i costi industriali (costruire una televisione privata, dagli studi ai ripetitori, costa molto più che fare una radio che copra lo stesso bacino), ma anche legami e legacci politici. C’entra poi anche il fatto della lingua: il mercato americano per quanto geograficamente complesso e difficile da gestire per una emissione televisiva così come per uno streaming performante, è comunque un mercato omogeneo dal punto di vista culturale e lingustico.

L’Europa è più “raccolta” geograficamente, ma divisa da lingue e culture diverse: serve a poco prendere televisioni istriane piuttosto che spagnole, tedesche o francesi se poi non si parla l’idioma e non si capisce la cultura sottostante.

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Il colpo di coda del digitale terrestre

Tutti “problemi” che lo streaming supera sia con la cultura del doppio audio (che spesso è una babele di versioni sonore multiple degne di un’assemblea generale dell’Onu) sia con “l’approccio McDonald” alle produzioni locali, acquistate dai grandi streamer e rimesse in circolazione.

Ma la “vecchia” televisione analogica, quella della scarsità, che in Europa offriva una dozzina di canali al massimo per la maggior parte delle città, prima di evaporare di fronte allo streaming ha fatto un ulteriore passo in avanti negli anni Duemila: il digitale terrestre.

Infatti, il digitale terrestre ha operato una netta trasformazione nel modo con cui si faceva e si fa televisione convenzionale. Ha reso all’improvviso tematici i canali, perché moltiplicando l’offerta possibile ogni singolo fornitore di contenuti ha cercato di specializzarsi su uno specifico canale. E poi è arrivato lo streaming e possiamo dire serenamente che è finito tutto, con spettatori dei canali tematici degni di un cineforum parrocchiale in un paese svuotato dalla crisi e dalle migrazioni.

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Le radici dello dello streaming

Ecco quindi che la “vecchia” televisione ha dettato il percorso, a grandi linee e con le dovute distinzioni ed eccezioni, dei servizi di streaming. Le fasi sembrano le stesse, in effetti. Dal monopolio inziale di Netflix, che ha più o meno costruito il modello del mercato (con YouTube sullo sfondo), al passaggio verso una struttura “rigida” con 3-4 grandi attori (si sono aggiunti Prime Video e poi la coppia Disney+ e Apple Tv+, più Paramount+ in un terzo tempo).

E infine a quella della esplosione cambriana di canali tematici in streaming. Manca poco che li facciano anche le associazioni pro-loco, sfruttando AWS come “motore” e qualche talentuoso giovane studente di informatica del posto che mette insieme con la colla e il nastro adesivo open source una piattaforma per lo streaming magari con le partite di curling e di calcetto più i documentari della valle o della costa, a seconda del caso.

Il New York Times ricorda che la situazione negli Usa sta mostrando i segnali chiari di una completa balcanizzazione del mercato. Troppe emittenze e gli spettatori diventano infedeli per professione. Ricevono offerte di tutti i tipi, perché gli Usa sono il paese degli affari veloci e del capitalismo totale: tre mesi a 1 dollaro, sei mesi con l’acquisto di un computer, quattro come premio con una nuova carta di credito e via dicendo. Tra un po’ danno via i QR code con i mesi in omaggio davanti alle scuole e nei centri commerciali (e forse già lo fanno). La conseguenza, quindi, è che le persone si organizzano.

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Alta infedeltà streaming

L’organizzazione degli spettatori è fedigrafa. Gli abbonati ai servizi manifestano un attaccamento più “americano”, cioè molto diverso da quello che ad esempio gli italiani storicamente hanno per la famiglia: noi gli vogliamo talmente bene che spesso ne abbiamo più di una).

Invece, gli americani la cambiano spesso. E poi la cambiano ancora. E poi la cambiano di nuovo. Una per volta, ma per molto poco tempo. Niente separazioni di fatto: divorzi veloci e via con nuovi matrimoni altrettanto rapidi. Dopotutto, gli Usa hanno inventato Las Vegas, dove ci si può sposare con un giudice di pace vestito da Elvis Presley in quindici minuti per cento dollari. E divorziare in ancora meno tempo.

Ecco dunque che gli spettatori si abbonano a una piattaforma, sfruttano la promozione, guardano ciò che gli interessa e poi cancellano il tutto e passano a quella dopo. Se nel mezzo c’è un perido di “vuoto”, oppure se c’è qualcosa che interessa su un’altra piattaforma che non è nel suo “momento d’oro” dal punto di vista delle promozioni fruite, si ricorre al download pirata o al massimo ci si rilassa su YouTube versione pubblicità. Oppure quella a pagamento, che per molti sta sostituendo la televisione di flusso “normale” e infatti i dati ci dicono che negli Usa YouTube viene visto molto più spesso sulle smart tv che non sugli smartphone.

Gli infedeli dello streaming arrivano in Italia

Il lato B della mela

Questa grande infedeltà di massa ai servizi streaming porta ovviamente problemi economici e gestionali per i gestori che, negli Usa, sono vincolati da un mercato fortemente liberista e competitivo. Non possono più mettere vincoli (abbonamenti “bloccati” per sei o dodici mesi, o cose del genere) e nemmeno sperare che qualche accordo sottobanco permetta loro di fare cartello e tenere i prezzi alti e le promozioni al minimo.

No, negli Usa c’è concorrenza. Un tipo di concorrenza che nel settore dello streaming ritroviamo anche da noi in Europa (a meno che il legislatore europeo non decida differentemente, ovviamente) e quindi fioccano anche da noi le promozioni ma gli abbonati non crescono, i costi (per le piattaforme) salgono e si cercano soluzioni basate sulla buona vecchia pubblicità o su abbonamenti a prezzi contenuti e con qualità minore dello streaming, o maggiori vincoli nelle riproduzioni.

La situazione, insomma, negli Usa si è già trasformata in una infedeltà di massa da parte del pubblico che si traduce in diminuzione degli introiti e problemi a produrre nuovi contenuti costosi e di qualità da parte delle piattaforme streaming e dei produttori. La stessa situazione, c’è da giurarlo, sta per prodursi anche dalle nostre parti. Manca poco.

Tutte le notizie che parlano dei servizi streaming per musica, film e serie TV e videogiochi si parte da questa pagina di macitynet.

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