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Il mistero degli iPhone mancanti. 200 mila ad Hong Kong?

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Lungo la via della seta i mercanti di mezzo pianeta facevano passare beni preziosi, raccontano i libri di storia e le cronache dell’economia che oggi pare lontana. Passaparola, racconti nelle logge dei mercanti, furbizie e capacità  di trovare fonti alternative di approvvigionamento. Un’economia che, nel mondo globalizzato e delle grandi corporation, della distribuzione totale e del retail spettacolare, pare dimenticata. Morta e sepolta. E che invece non lo è.

Gli iPhone mancanti sono più di un milione, facendo la differenza algebrica tra quelli attivati e quelli acquistati. I dati provengono da fonti diverse (Apple per le vendite, gli operatori telefonici a partire da At&T per le attivazioni) e vanno presi con le molle. Le tecniche di contabilità  sono infatti controintuitive. Per Apple sono venduti apparecchi che semplicemente escono dalla fabbrica e traversano alcuni dei passaggi della complessa macchina per la distribuzione aziendale. Per At&T sono attivati quelli che vengono effettivamente pagati. I magazzini, gli scaffali, i container fanno da “camera di compensazione”: gli apparecchi “persi” nelle spire della logistica diventano “scomparsi”. E alcuni sono sicuramente lì.

Ma altri vengono comprati e mai attivati. Questo è sicuro. Lo abbiamo potuto parzialmente constatare anche noi, visto l’alto numero di contatti a gennaio su Macity in cui la versione di Safari di iPhone e iPod touch lasciano una traccia differente da quella delle altre versioni di Safari o dei browser. E considerando che da noi è in vendita solo l’iPod touch, appare curioso pensare che 96 mila persone si colleghino a Macity con il touch e non anche con l’iPhone craccato che ha, oltretutto, più “facilità ” a navigare visto che oltre al WiFi può contare anche sulle tariffe Gprs-Edge degli operatori nazionali.

Tuttavia, immaginare file e file di pellegrini che si recano per mesi prima negli Usa e poi anche in Francia, Germania e Gran Bretagna per tornare in Italia o in Asia con valigie piene di iPhone appare in parte improbabile. Sicuramente succede, perché nasconderselo. Ma è difficile fare numeri davvero significativi. E anche gli acquisti su eBay o gli amici compiacenti oltre oceano non sono l’unica risposta possibile.

Ecco che a fare più luce sull’argomento arriva Information Week con un servizio nel quale si spiega quale sia in realtà  la via della seta digitale. àˆ una strada virtuale costruita da mercanti digitali che acquistano stock interi di iPhone e li spostano da continente a continente, per poi rivenderli con lucrosi margini e addirittura servizi associati per craccare (ed eventualmente sbrickare) gli apparecchi. Non è una novità  assoluta, succede da tempo soprattutto nel mercato dei video giochi dove si è creato un vero e proprio ecosistema di import-export di giochi, modifiche, periferiche, usato e retrogaming davvero impressionante (Sony non molto tempo fa ha fatto chiudere un paio di questi negozi di Taiwan e Hong Kong seppellendoli sotto tonnellate di cause giudiziarie).

Nella fattispecie per l’iPhone gioca la sua carta Wireless Imports, che rompe il muro di “omertà ” e spiega che acquista e spedisce, come ogni grossista-distributore, il bene già  confezionato oltre oceano. Ad Hong Kong, per la precisione. Tante piccole spedizioni, in cui il costo maggiorato consente di mantenere un margine per il mercante e dove, nei mercati di destinazione, il differenziale di prezzo con la conversione dollaro-euro, ad esempio, o i servizi aggiuntivi di crack consentono di lucrare anche da parte dei dettagliante.

Dai numeri ventilati ad Information Week appare che tra i 100 e i 200 mila iPhone siano parcheggiati ad Hong Kong, ad esempio. Si tratta del 10-20% di quelli mancanti. Un quinto, nella principale delle ipotesi. E Wireless Imports fornisce anche il servizio di crack, persino online, a 180 dollari di prezzo aggiuntivo. Vendendo gli apparecchi a 600 dollari.

Il problema per Apple non è solo per il lucro cessante ma anche per il danno emergente dall’attività  di questo tipo di mercanti. Senza contare che in questo modo gli “apripista”, quelli che comprerebbero rapidamente l’iPhone, probabilmente non lo faranno quando verrà  commercializzato nei vari paesi, come il nostro e gli altri in cui ancora non è presente. E non solo: avranno convenienza a cercarli ancora in altri mercati paralleli, se com’è probabile la forbice tra il prezzo “out of the box” americano e quelli in Euro rimarrà  così sostanzialmente elevata da consentire a un terzo di acquistare in negozio negli Usa, craccare e rivendere in Europa facendo un utile ma restando ancora sotto il prezzo nel negozio in Francia o Germania. O comunque, dentro una frazione irrisoria del prezzo dell’apparecchio vincolato per 18 o 24 mesi ad un singolo operatore.

Australia, India. Sud America, Russia, Medio Oriente, Canada, Tailandia, Africa, Indonesia, Europa: sono centinaia e centinaia di milioni i potenziali utenti che non vengono ancora raggiunti dal modello di distribuzione scelto da Apple e dalle alleanze con i singoli operatori. Un modello geniale dal punto di vista economico e della qualità  di servizio, ma che, in un mondo in cui la globalizzazione ha prodotto una nuova via della seta digitale, appare drammaticamente lento. E a rischio di essere sorpassato dalla realtà  della competizione di oggi: quella alternativa alle grandi corporation.

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