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Il futuro dell’informatica. Cosa succede in Cina? Parte Seconda

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Si chiama Classmate PC, ha un Celeron di Intel come cuore e gira con Windows. àˆ la risposta di Microsoft e Intel a Negroponte e il desiderio un po’ disperato di conquistare quel fantomatico mercato delle scuole nei paesi in via di sviluppo che i più lungimiranti vedono come la chiave per l’industria informatica da qui a dieci anni. Cos’è in realtà  il Classmate PC?

Intanto, è un apparecchio con uno schermo da 7 pollici che ricorda, nelle linee morbide e nella robustezza, un po’ l’XO di Negroponte di cui parlavamo nella prima puntata. E deve ricordarlo, perché va a competere direttamente con lui. Poi, è il primo frutto del piano World Ahead Program di Intel, la risposta a 50×15 di Amd. C’è un mondo davanti che risponde all’idea di collegare il 50% della popolazione mondiale entro il 2015. Tutti e due mirano a conquistare la mente e il cuore dei bambini più poveri del mondo.

Non c’è solo dal punto di vista dell’hardware e dei sistemi operativi questo tipo di desiderio. Anche Wikipedia, il primo frutto della mente di Jimmy Wales, è desiderosa di andare alla conquista del Terzo Mondo. Si è alleata non a caso proprio con OLPC, Negroponte e l’XO per portare i primi contenuti “open” dell’enciclopedia collaborativa in territori dove spesso non ci sono gli strumenti per raccogliere la conoscenza, la cultura e la memoria dei gruppi e delle popolazioni. La profezia di Wales è che nei prossimi dieci anni l’entrata in rete di centinaia di milioni di persone provenienti da assi culturali differenti da quello “mainstream” dell’Occidente rivoluzionerà  davvero in maniera radicale il nostro modo di pensare e di agire. Saremo esposti per la prima volta e in maniera completa a culture e idee differenti, che troveranno dal loro punto di vista per la prima volta l’opportunità  di mettersi in rete, raggiungere la massa critica, evolvere.

Pensiamoci un attimo, prima di tornare al Classmate PC: in ambiente tecnologico la prima rivoluzione portata dalla rete è stata quella di far nascere un nuovo paradigma economico e lavorativo. L’open source (pensiamo a Linux, ad Apache e via dicendo) è nato perché le competenze sparpagliate di migliaia di appassionati si sono finalmente potute incontrare. Poi, la rete ha cambiato anche il modo in cui valutiamo il diritto d’autore, il diritto di riproduzione e la stessa proprietà  intellettuale: con la rete è possibile scambiare (e quindi cambia il valore, rispetto agli acquisti tradizionali) i beni digitali, cioè musica e film.
Infine, il direttore di Wired Chris Anderson ha ipotizzato che in effetti la rete sta avviando l’apertura di un sistema differente nel modo in cui sono organizzati i mercati. Si chiama Coda Lunga ed è un modo per dire che le nicchie adesso contano più dei best-seller, perché la rete mette in contatto acquirenti e venditori. àˆ il mercato reso perfettamente efficiente (o quasi) quello della rete.

E queste sono le considerazioni e gli effetti nati dalla cultura e dal modo di vivere degli Occidentali. Pensiamo a cosa succederà  quando invece saranno persone provenienti da culture totalmente differenti, con altri set di valori, bisogni, idee, fantasie, a mettere le mani su questi strumenti di comunicazione e scambio.
Secondo Jimmy Wales, una rivoluzione di portata inaudita ci attende giusto dietro l’angolo. In questo, però, una cosa gioca un ruolo chiave: lo strumento che permetterà  di accedere alla rete a queste decine di milioni di persone. Quale sarà  la Ford Modello T, la Cinquecento che permetterà  loro di viaggiare sulle autostrade dell’informazione, come le chiamava quindici anni fa Al Gore?

Sinora l’approccio alla vendita di tecnologia nei paesi del terzo mondo è stato abbastanza lento e confuso. Troppo poveri per permettersi i costosi giocattoli degli Occidentali, troppo complesso costruire le reti di vendita e di assistenza. Troppo povere le infrastrutture per alimentare, ad esempio, i computer.
Troppo complicati gli aspetti geopolitici per consentire di formulare piani di marketing e di vendita credibili. Insomma, i mercati asiatici, mediorientali, africani e dell’America latina sono stati trascurati. Però le cose negli ultimi dieci anni sono cambiate radicalmente. In Cina, ad esempio, dove alla relativa libertà  del sistema comunistico-capitalistico si è aggiunto anche un crescente benessere di fasce sempre più ampie della popolazione. Oppure in America latina, dove leader di una nuova generazione più attenta allo sviluppo economico e sociale delle popolazioni locali (Brasile, Perù, e anche Argentina tra gli altri) hanno cominciato a considerare l’informatizzazione come un bisogno prioritario per le popolazioni dei propri paesi. E si sono anche cominciati a fare delle domande. Cominciamo da quelle che si sono fatte i cinesi.

Informatizzarsi vuol dire sostanzialmente aprirsi a un nuovo mercato. Un mercato che è di dominio totale degli occidentali, soprattutto gli statunitensi. Loro progettano i computer, loro hanno il monopolio della tecnologia chiave, cioè il processore, loro realizzano i sistemi operativi. Questo vuol dire diventare un mercato colonia, se si lascia che siano gli stranieri a guidare la danza.

Né più né meno di quello che succede in Europa, dove il software ha un peso limitato (da un punto di vista industriale praticamente solo la tedesca Sap per il software di azienda ha una visibilità  internazionale degna di questo nome) e l’hardware è solo realizzato ma non progettato. Ci sono un paio di fabbriche di processori nell’Europa dell’Est, visti i bassi costi della manodopera specializzata dell’area, e per il resto l’Europa compra quanto viene progettato in America e assemblato in Cina o Taiwan. La Cina, assemblatore-principe, non ci sta. E piuttosto pensa al Giappone che, aiutato dalla barriera naturale della lingua e dalla spinta autarchica di una industria che si è sempre in buona parte aiutata da sola attraverso il coordinamento con lo stato, gioca una partita tutta sua.

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In pratica, come il Giappone, anche la Cina vuole poter contare sulla dimensione eccezionale del mercato interno per riuscire a sostenere una propria economia hi-tech autonoma, che le consenta di crescere senza essere dissanguata dalle importazioni. Anzi, che in prospettiva le consenta anche di giocare un ruolo di attore e non di cliente rispetto al resto del mondo. Senza contare che la tecnologia informatica è anche una risorsa strategica per un paese che non condivide le idee politiche dell’Occidente. I sistemi operativi forniti dagli Usa, che sono pur sempre la potenza militare dominante al mondo, possono diventare il cavallo di Troia per controllare ed eventualmente sabotare le risorse della Cina. Un ragionamento che a Pechino è stato fatto da più di un trentennio e che in questi ultimi anni sta andando ancora più avanti.

Lo sforzo di Pechino, infatti, è quello di costruire lentamente una via cinese all’informatica, copiando e innovando a seconda delle bisogne, e tenendo parallelamente il piede in tutte e due le scarpe, perché dei prodotti occidentali – che oltretutto vengono prodotti quasi sempre proprio nelle fabbriche cinesi – nell’immediato c’è sicuramente bisogno. àˆ in questo contesto che è nato il progetto, portato avanti da attori diversi e con specifiche differenti, di creare da zero un mondo informatico autoctono e autarchico.

Il cuore di questo progetto è il computer “Sogno del Dragone”, Longmeng. Frutto del progetto combinato del Jiangsu Menglan Group e del Chinese Institute of Computing Technology (che è poi un braccio dell’Accademia delle Scienze cinesi), è basato sul processore Loongson, “Figlio del dio”, realizzato interamente in Cina. Ovvero, realizzato partendo dai progetti di un processore MIPS, cioè una architettura differente dalle x86 di Intel e Amd, sulle quali però sono stati portate varie distribuzioni di Linux.

Processore Longson

Il “cuore del dragone” è arrivato alla terza generazione e continua la sua lunga marcia verso i 64 bit, con basso consumo e soprattutto basso costo di produzione.
Linux, proprio per essere un sistema aperto, è anche un sistema che può essere “verificato” (il terrore è la leggenda metropolitana che dentro Windows ci siano backdoors che Microsoft ha venduto al governo Usa e che consentirebbero il controllo o lo spionaggio remoto di qualsiasi Pc sul pianeta) ed eventualmente “chiuso” con un fork che consenta di adattarlo ad esigenze particolari. Fantascienza geopolitica, forse, ma anche considerazione commerciale di cosa sia necessario per la sicurezza e l’avanzamento in un determinato settore hi-tech. I cinesi per quanto riguarda le tecnologie informatiche non solo partono molto tardi rispetto alle esigenze del paese, ma sono anche stati a lungo in difficoltà  per la peculiarità  della lingua scritta, con gli ideogrammi, che rende il rapporto con l’informatica ancor più difficile e problematico.

A fare compagnia al Sogno del Dragone, il Pc desktop a basso consumo che viene venduto a meno di 300 dollari, ci sono anche altri prodotti, come quello di Sinomanic, cioè il portatile Tianhua GX-1C che ricorda da vicino il Classmate Pc di Intel e costa circa 250 dollari. àˆ l’alba di un mercato che sta lentamente muovendosi verso la parte più profonda e rurale della Cina, cioè quella occidentale, schiacciata verso la Russia. Paesi e province abitate da decine e decine di milioni di persone che non hanno accesso spesso a nessuno degli aspetti della vita che noi occidentali definiremmo “moderni” e che invece stanno cominciando a cambiare, a crescere, a muoversi e a vedere cosa c’è di significativo e importante.

Una delle chiavi dello sviluppo, che Pechino intende mantenere autarchico, è quello informatico e di rete. Ma non c’è solo la Cina con il miraggio del suo infinito mercato interno. Ci sono anche altri progetti, che nascono un po’ in tutto il mondo, per realizzare architetture e prodotti a basso costo, a basso consumo e a basso impatto che possono fare la differenza nella proliferazione delle tecnologie informatiche e di rete. Li vedremo nella prossima puntata.

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