C’è un aneddoto apocrifo su Steve Jobs, un racconto uscito dalle stanze del vecchio campus di Apple quando ancora era al numero uno di Infine Loop. L’aneddoto è stato raccontato, e riproposto in rete, da uno dei membri del team in questione. La storia è questa.
Steve Jobs ha passato in congedo medico i primi sei mesi del 2009. Quando è tornato al lavoro, all’inizio dell’estate, si è concentrato quasi completamente sullo sviluppo e il lancio del primo iPad, che è stato sostanzialmente il suo ultimo prodotto e che è stato presentato al pubblico nell’aprile del 2010 (e in Italia poco dopo).
Dopo il lancio, venne organizzata una serie di riunioni con tutti i gruppi di lavoro del campus di Apple. Uno di quei gruppi di lavoro era la squadra incaricata di gestire il MacBook. L’incontro, racconta il testimone che ne faceva parte e che ha raccontato la storia, doveva essere di altissimo livello: le grandi strategie per il futuro, la “big picture”, qual è il MacBook dei prossimi dieci anni per Steve Jobs?
La squadra si era preparata lungamente, mettendo insieme un sacco di idee grandi e piccole, rivoluzionarie e transitorie. L’obiettivo era impressionare Steve Jobs, compito di solito non facile e questa volta addirittura impossibile.
Steve Jobs, racconta il testimone, entra nella saletta riunioni con uno dei nuovi iPad appena presentati, si siede accanto al MacBook che è stato preparato per le demo che devono impressionarlo. «Guardate questa cosa», dice e preme il pulsante home dell’iPad, che si riattiva istantaneamente. Lo mette in stad-by e lo riattiva di nuovo. Poi, indica il MacBook e dice: «Questo qui invece questa cosa non la fa. Io voglio che gli facciate fare questa cosa». Si alza, prende l’iPad sotto braccio e se ne va dalla riunione, durata meno di tre minuti.
Oggi possiamo dire una cosa: Steve Jobs avrebbe amato alla grande questi MacBook M1. Perché il lavoro fatto su questo processore, i dieci e più anni di lavoro fatti su questo processore, stanno mettendo Apple in una condizione molto particolare. Su tre transizioni di processore fatte sino a questo momento, le prime due sono state fatte in condizioni di inferiorità, con l’acqua alla gola.
Il passaggio da 68K di Motorola al PowerPc nel 1994 era un passaggio epocale, verso una nuova architettura (e il più interessante fino a ieri, a dire il vero) che doveva finalmente dare gambe a una scelta tecnologica fatta alla fine degli anni Settanta. Il processore 68K del primo Mac non ce la poteva fare a reggere l’urto della piena evoluzione del personal computer, il processore RISC del consorzio Motorola-IBM-Apple (AIM) invece sì. Bisognava recuperare terreno contro Intel.
Nel 2005 la transizione a Intel è stata fatta con l’acqua ancora più alla gola. Mac andava bene, ma occorreva superare la barriera infinita dei processori PowerPC, che stavano dimostrando di non avere più un futuro. L’accordo con Intel è stato negoziato magistralmente da Steve Jobs, la roadmap era ottima e Apple aveva ottenuto tutto quello che voleva, incluso non dover mettere gli sticker “Intel Inside” sui computer. Ma era figlia della disperazione.
Con i processori Intel Apple è diventata alla fine comparabile ai PC e ha potuto giustificare la superiorità della sua scelta di design dei prodotti e del suo sistema operativo. La stessa piattaforma di sistema (Intel) alla base, ma scelte diverse sopra. Tutto a posto sino a quando Apple non è andata a scontrarsi con i problemi di Intel: temperature eccessive, crash, bug nel microcodice, insicurezze, lavorazioni che non scalano, potenza che non cresce.
Apple, dopo la partenza con iPhone nel 2007, dal 2010 ha iniziato a lavorare con gli iPad e ha iniziato a costruire i suoi processori. Una strada lunga ma che l’azienda ha seguito con determinazione, realizzando processori molto, molto più capaci ed efficienti di quelli Android e in generale di tutti gli altri processori ARM (ci sarà tempo e modo di spiegare perché, nei prossimi giorni). Alla fine, Apple si è preparata per dieci anni a fare questa transizione.
Il risultato? La terza transizione, quella per Apple Silicon il cui primo esemplare è il clamoroso M1, e che nasce dalla logica constatazione che, avendo raggiunto la superiorità tecnologica nel campo degli smartphone e dei tablet, Apple può raggiungerla anche in quella dei processori per personal computer. Una considerazione logica di fondo, oltre a quella economica della riduzione dei costi dovuti all’integrazione verticale di tutte le piattaforme e a quella commerciale/produttiva della presa in carico dei tempi di innovazione di prodotto, non più demandata dal tasso di innovazione gestito esternamente da un’altra azienda (Intel).
Il risultato, secondo molti, è quello di aver creato un computer avanti almeno di tre o cinque anni rispetto alla concorrenza sia Intel-AMD che Qualcomm. Una serie di computer che danno un vantaggio enorme, paragonabile a quello del primo iPhone, del primo iPad, del primo iPhone X. Quanto durerà questo vantaggio? Quanto impatto avrà sulla capacità degli altri produttori di adattarsi, di trovare le tecnologie giuste?
Un paio di anni dopo il lancio dell’iPhone chi scrive si era trovato per lavoro a Taiwan, a visitare le fabbriche di componenti che i fornitori vendono all’ingrosso ai marchi che producono i telefoni. In particolare, la titolare di una fabbrica di schermi touch che riforniva molti produttori di telefonini dell’epoca aveva spiegato che tutti i suoi clienti chiedevano uno schermo touch “come quello dell’iPhone”. E lei spiegava che non era possibile perché, oltre alla tecnologia hardware dello schermo, c’era tutta l’integrazione software e il fatto che il telefono fosse sostanzialmente progettato e costruito come se fosse un tutt’uno.
Questo genere di vantaggio adesso si è riprodotto. Apple con M1 è chiaramente, visibilmente, evidentemente, in testa. È un vantaggio quantitativo (le prove con i primi benchmark lo mostrano) ma è anche un vantaggio qualitativo, come per lo schermo del primo iPhone, che funzionava “meglio” e “come nessun altro telefono prima”, con una interfaccia innovativa ma anche con un feeling e una risposta al touch “naturale”, “giusta”, “ottima”.
I computer di Apple con Intel a bordo sono riusciti all’inizio a far vedere e girare il software di Apple come Apple voleva e si aspettava, pur non essendo progettati in modo ottimizzato per quello che gli ingegneri di Cupertino volevano fare. Nel tempo, però, questa differenza è apparsa sempre più evidente, oltre al rallentamento tecnologico di cui è vittima Intel (per sua stessa colpa). Adesso, con M1 e Apple Silicon, Apple recupera quello: il Mac funziona come avrebbe dovuto e come i suoi creatori avrebbero sempre voluto.
E si accende subito, al tocco di un tasto. Il sogno di Steve Jobs.