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Il politically correct nell’IT e la sparizione di “master” e “slave”

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GitHub, società per la gestione da remoto del codice sorgente di proprietà di Microsoft, è al lavoro per rimpiazzare il termine “master” con un più neutro “main” dal suo software, e in questo modo eliminare termini con riferimenti non necessari alla schiavitù e alla razza.

Cosa è successo

GitHub, che è stata comprata per 7,5 miliardi di dollari da Microsoft nel 2018, è un servizio di hosting per progetti software basato sulla tecnologia per creare e gestire repository “git”, creata da Linus Torvalds. È probabilmente la più grande al mondo e viene utilizzata da milioni di piccoli sviluppatori e colossi come Apple, Amazon, Facebook e Google, oltre ovviamente a Microsoft.

La terminologia informatica (e non solo) che viene messa in discussione è quella con termini come “master” e “slave”, da sostituire con “main/default/primary” e “secondary” ma anche termini come “blacklist” e “whitelist” da sostituire con “allow list” e “deny/exclude list.”

La pulizia lessicale del software

Il movimento sostiene che l’utilizzo di questo tipo di terminologia caricata di significati razziali sia un modo per rendere ancora più diffusi e difficili da eliminare gli stereotipi razziali. La teoria per quanto riguarda la “pulizia lessicale” dell’informatica non è nuova, se ne parlava di già almeno nel 2018. Ma adesso, con il movimento Black Lives Matter negli Usa è diventata ancora più forte e la terminologia utilizzata per il codice sorgente, il software applicativo e i servizi online stanno subendo una rapida “pulizia lessicale”.

Così, Google ha spiegato che Android e Go, il suo linguaggio di programmazione, oltre alla libreria PhpUnit e all’applicativo Curl per il download dei siti web da riga di comando elimineranno la dicitura “blacklist/whitelist” con alternative neutre. E OpenZFS, dietro al file system che per un periodo sembrava sarebbe dovuto diventare anche quello di macOS, ha deciso di eliminare i termini “master/slave”, utilizzati per descrivere la relazione tra ambienti di storage.

GitHub (Microsoft) rimuoverà il termine “master” dal suo servizio

Il movimento si allarga

Gabrile Csapo, uno sviluppatore software che lavora per LinkedIn, il social dei curricula e anch’essa società acquistata da Microsoft, ha detto che intende lavorare affinché Microsoft rimuova da tutte le librerie interne qualsiasi parola che possa avere un significato razziale.

Il fenomeno è ancora più ampio di quello che non sembra e le sue conseguenze nel mondo dell’informatica, per quanto apparentemente limitate, diventeranno molto profonde e ramificate. Una serie di progetti che si basano su Gut e GutHub stanno modificando il nome della versione “master” nel loro repository usando altri termini: main, default, primary, root. Il master è la versione principale, che viene divisa (fork) dagli sviluppatori in versioni secondarie, a cui vengono fatte modifiche locali per poi essere proposte come valide per essere inserite di nuovo nella versione master.

A cambiare terminologia ci sono progetti come OpenSSL, Ansible, il linguaggio di scripting della PowerShell di Microsoft, la libreria P5.js di JavaScript e vari altri. È un modo per suportare il movimento Blm e le sue proteste e un modo per cambiare radicalmente la cultura dello sviluppo software (che negli Usa soffre da sempre di enormi problemi di diversità, sia nei confronti delle persone afroamericane che delle donne, mentre c’è una robusta presenza di persone di origine indo-asiatica).

Il conflitto git-Github

Lo snodo del dibattito, generato dalla mossa di GitHub, è significativo perché la società di proprietà di Microsoft ha deciso di andare avanti anche se il gruppo di lavoro open source che gestisce git, il motore software su cui è poggiato il sito, non ha ancora deciso di fare alcun cambiamento. La decisione di GitHub arriva prima che Git abbiamo formalmente cambiato il codice, insomma.

La “forzatura” di GitHub cambierà però le carte per decine di milioni di progetti software, che la fondazione dietro a git e che gli utenti lo vogliano o no, perché verrà cambiato il modo con il quale il software definisce la versione principale del codice presente nel repository.

Drupal e gli altri precursori

La mossa di Microsoft/GitHub è condizionata dal tempo presente, ma in realtà non è nuova. Infatti già nel 2014 Drupal, il cms open source, aveva rimpiazzato i termini “master/slave” con “primary/replica.” E dopo Drupal anche Python, Chromium (la versione open source di Chrome), il compilatore Roslyn .Net e i database PostgresSQL e Redis hanno fatto questa scelta.

GitHub (Microsoft) rimuoverà il termine “master” dal suo servizio

La neolingua del codice

Il problema è ampio, e la “pulizia lessicale” secondo i critici mira a creare una specie di “neolingua” “politicamente corretta”, forzando dal punto di vista lessicale una interpretazione della realtà anche in ambiti che non hanno diretta correlazione con i temi razziali o della schiavitù. E oltretutto, uscendo dai confini della lingua inglese (visto che il software viene utilizzato in tutto il pianeta) il cambiamento di terminologia è solo confusivo e porta poco se non nessun valore. Non solo perché non si capisce il significato delle parole, ma anche perché, quando risuonano come “master”, non hanno un significato equivalente nella storia della lingua dei parlanti: in Italia la schiavitù non è un fenomeno storicizzato e non è rilevante come il movimento per i diritti civili americano.

Inoltre, anche l’utilizzo da un punto di vista tecnico di termini come “master” e “slave” ha un significato esclusivamente tecnico, in scenari in cui la schiavitù o il razzismo non c’entrano niente. E altri termini, come le “black list”, le “liste nere”, ha una etimologia completamente differente: si trattava di una pratica dell’Inghilterra medioevale per segnare i nomi dei lavoratori problematici ed evitare di assumerli in futuro.

Un po’ di storia

Inoltre, la “pulizia lessicale” dei termini con una possibile connotazione classista pongono degli enormi problemi in prospettiva, sia nella cultura popolare che in quella classica. Dai cartoni animati dei “Master of the Universe” a tutte quelle frasi e titoli in cui viene utilizzato Master che, in inglese, assume peraltro più significati: padrone, ma anche maestro, insegnante, mastro, direttore.

E la letteratura latina e greca, in cui la schiavitù era una istituzione regolata giuridicamente seppure in maniera profondamente diversa da quella praticata con la tratta degli schiavi fra il XVI e il XIX secolo da mercanti autorizzati da Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia) e i nascenti Stati Uniti oltre alle colonie dell’America latina, per un totale di 12 milioni di africani, con quattro milioni di morti. Per non parlare poi del trattamento riservato ai nativi americani, che era stato criticato e poi oggetto della scomunica con la bolla “Veritas Ipsa” di Papa Paolo III già nel 1537, sfruttata dai mercanti schiavisti e da interi Stati europei per trasportare africani in America: complessivamente, dal XVI al XIX secolo, quasi la metà degli schiavi venne deportata da Portoghesi e Brasiliani, un quarto da Britannici e un decimo da Francesi.

Dal razzismo al politically correct e ritorno

Le ragioni storiche per fare i conti con il fenomeno della schiavitù e del razzismo, portati avanti dalla visione eurocentrica e dal pregiudizio della superiorità occidentale rispetto al resto del pianeta, ci sono e sono decisamente abbondanti, per quanto storicamente corrono parallele a sentimenti similari appartenuti a varie altre popolazioni in momenti diversi della storia. Il problema è trasportare una forma di pulizia lessicale parte del pensiero neopuritano che si è manifestato a partire dagli anni Ottanta con la “political correctness” e ha aperto la strada al riconoscimento del multiculturalismo e nel conseguente bisogno di giudicare discriminatorie alcune abitudini e scelte linguistiche, offensive nei confronti delle minoranze.

Qualche considerazione finale

Anche perché spesso abbatte senza costruire, critica senza proporre: una “igiene verbale”, come scriveva il linguista Edoardo Crisafulli nel libro omonimo del 2004 che si chiede quale sia il rapporto tra “politicamente corretto” e “libertà linguistica”. E, francamente, nel nostro piccolo mondo informatico, ce lo chiediamo anche noi. Come argomenta un altro lessicografo italiano, Massimo Arcangeli, nel suo “La lingua imbrigliata. In margine al politicamente corretto”, la lingua è viva e va oltre censura e ipocrisia. Anche perché il razzismo non è una gaffe: lo argomenta nel suo “White Fragility” la ricercatrice ed educatrice Robin J. DiAngelo, una delle pensatrici più brillanti del dopoguerra su questi temi.

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