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Il New York Times: ecco come gli USA hanno perso gli stabilimenti Apple

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Apple aveva bisogno, perché Jobs lo ordinava, di un sistema per far migrare i telefoni dalla copertura in plastica a quella in vetro. La richiesta, complessa perché nessuno nel mondo aveva uno stabilimento in grado di dare il via alla sperimentazione e poi all’assemblaggio di questo materiale, inconsueto nel cellulari, venne passata ad uno stabilimento cinese. In pochi giorni venne completato un capannone, furono riempiti i magazzini di pannelli forniti gratuitamente a scopo di test e convocati centinaia di lavoratori per dare il via alla sperimentazione. Un mese dopo tutto era pronto per dare il via alla produzione di iPhone e il primo camion carico di pannelli tagliati prese la strada di Foxconn. Il camion arrivò nel cuore delle notte e 8000 dipendenti vennero svegliati e messi davanti alla loro stazione di lavoro per dare il via all’assemblaggio; 96 ore dopo da quello stabilimento uscivano 10mila iPhone al giorno.

Questa è una delle storie raccontate dal New York Times in un vastissimo articolo che prende le mosse dalle scelte compiute da Apple, la più grande azienda IT del mondo, e dalle sue strategie per spiegare le ragioni per cui gli USA stanno perdendo posti di lavoro offerti da aziende americane che spostano la loro produzione in Cina. La risposta alla domanda che anche Barack Obama aveva rivolto a Steve Jobs durante la famosa cena con i più importanti imprenditori della Silicon Valley che si era svolta a San Francisco lo scorso anno, ottenendo una risposta non troppo confortante («Quei posti di lavoro non torneranno mai indietro») non è facile e comunque non parte dal semplice presupposto che il lavoro in Cina costa meno. Il costo del lavoro non è determinante visto che, ad esempio, nel caso di iPhone un telefono costruito negli USA avrebbe un ricarico di “soli” 65$ rispetto ad uno prodotto oltre oceano. In pratica Apple potrebbe costruire un iPhone negli USA e continuare a guadagnare molto se non ci fossero dietro, come spiega il giornale, molte altre ragioni di impronta logistica e organizzativa che sconsigliano di farlo.

In particolare, hanno detto alcuni dipendenti ed ex dipendenti Apple che parlavano nell’anonimato, riportare negli USA le linee di produzione è impraticabile per la mancanza di forza lavoro sufficiententemente esperta ed istruita. Ad esempio nel caso di iPhone sono necessari 8700 ingegneri per dirigere le linee di produzione composte da 200mila dipendenti; Foxconn ha impiegato 15 giorni a trovarli, negli Stati Uniti potrebbero volerci nove mesi. «Non possiamo rimproverarci di usare dipendenti cinesi per costruire i nostri dispositivi – dice un’attuale (e anonimo) manager Apple – l’America ha smesso di creare persone con le professionalità necessarie»

Un’altra ragione per la quale gli impianti sono all’estero è nel fatto che anche molte aziende americane che producono componenti spostano all’estero le loro fabbriche. È il caso di Corning, che fornisce il vetro speciale Gorilla Glass per iPhone, un’azienda centenaria basata in Kentucky che ha deciso di portare almeno in parte la sua produzione in Giappone e Taiwan riducendo anche di dieci volte i costi e tagliando di un mese i tempi per le consegne, visto che le fabbriche sono in Cina.

foxconn

Una terza ragione ed importantissima ragione è nella scala che possono raggiungere gli impianti cinesi e nella loro capacità produttiva oltre che nel sistema logistico ed organizzativo. «Ti servono – dice un ex dipendente Apple – migliaia di guarnizioni? Hai una fabbrica accanto alla tua che le produce. Hai bisogno di un milione di viti? C’è un’azienda che te le fornisce ad un isolato di distanza. Vuoi che quella vite sia un po’ differente? Ci mettono tre ore a modificarla». Nelle aziende cinesi c’è sempre il personale che serve, per quantità e disponibilità.

La scala su cui lavorano queste aziende è inimmaginabile. A Shenzen nella fabbrica Foxconn lavorano 230mila persone, operative sei giorni la settimana, anche su turni di 12 ore. Ci sono 300 persone addette a dirigere il traffico dei pedoni per evitare ingorghi durante il cambiamento dei turni; ogni giorno si cucinano tre tonnellate di maiale e 13 tonnellate di riso. Se necessario possono reclutare 3.000 persone da un giorno all’altro e metterle a dormire in camerate. «Quale azienda americana è in grado di reclutare 3.000 persone in 24 ore e convincerle a dormire insieme, in un camerone comune?», dice Jennifer Rigoni che ha lavorato per Apple, curando le forniture a livello mondiale fino al 2010.

Tutto questo sta impoverendo gli USA. Nell’articolo si racconta la storia di Eric Saragoza, un ingegnere che lavorava ad Elk Groove dove si assemblavano i primi iMac. Il suo stipendio era di 50mila dollari l’anno, ma ben presto si rese conto che le cose sarebbero cambiate. Costruire l’all in one nei pressi di Sacramento costava 22 dollari (materiali esclusi) e a Taiwan 4,85 dollari e questo non tanto e non solo per il costo del personale, ma per i magazzini inefficienti e il tempo necessario per completare un prodotto. Venne chiesto ad alcuni dipendenti di lavorare per 12 ore e anche al sabato, ma pochi accettarono. Apple cominciò a spostare il lavoro all’estero fino a quando Saragoza venne licenziato e la fabbrica chiusa e trasformata in un call center e in parte affittata ad un’azienda che testa gli iPad e iPhone ricondizionati, ed è lì che per qualche tempo, ironicamente, ha lavorato l’ex dipendente Apple, un ingegnere laureato, pulendo schermi e testando connettori per le cuffie percependo 10 Dollari l’ora senza alcun beneficio come assicurazione sanitaria e piano pensionistico.

L’articolo, molto più complesso e strutturato della sintesi che abbiamo cercato di farne in questa sede, è una lettura di particolare interesse per tutti coloro che si occupano sia di cose Apple che di chi è curioso di capire le ragioni per cui il mercato del lavoro sta diventando così difficile in tutti i paesi del mondo occidentale.

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