Il tempo passa ma alle volte passa fin troppo velocemente. Perché il mondo che era ieri, adesso all’improvviso scopriamo che era ieri l’altro, se non di più.
Questo è l’anniversario, anzi il trentennale di uno spot che il vostro cronista ricorda da tempo immemore: non perché l’abbia visto in diretta (solo gli americani collegati alla televisione per il SuperBowl e magari qualche italiano in vacanza vi hanno assistito, poi non è praticamente stato più trasmesso) ma perché ha costruito la fondazione della Seconda Apple. Perché di Apple, casomai qualcuno lo volesse sapere, ce n’è stata più di una. E altre ancora ce ne saranno.
In particolare, la Seconda Apple è quella che ha fatto seguito all’azienda piccola e amatoriale messa assieme da Steve Jobs, Steve Wozniak e un terzo uomo presto scomparso dalla scena. Amatoriale ma dalle idee convinzioni molto ambiziose. In realtà, una azienda con il DNA per essere la rivoluzione.
Poi, le cose sono cambiate, il mondo ha cominciato a crescere e Apple, cioè Steve Jobs, ha messo le fondazioni per il futuro. Ha costruito letteralmente il futuro. Lo ha fatto con nomi oggi entrati nella leggenda proprio grazie a quella stagione, come Chiat&Day, l’agenzia di pubblicità che ha materialmente costruito la creatività dello spot pubblicitario che qui si viene a celebrare, e Ridley Scott, visionario regista di pubblicità e film reduce da pochissimo dal lancio di Blade Runner (1982), il terzo film più influente di fantascienza dell’epoca, dopo 2001 Odissea nello Spazio (1969) e Guerre Stellari (1978).
Ecco, con quel dream team Apple e Steve Jobs hanno lanciato le base dell’Era del Macintosh, la Seconda Apple. Costruendo uno spot che ancora oggi affascina ed ipnotizza anche se non ne capiamo il motivo. Quello che è certo è che lo stesso Jobs sapeva dell’importanza di quello spot al punto da riutilizzarlo per sancire il successo dell’iPod, vent’anni dopo, proiettandolo per la seconda volta davanti a un pubblico ancora più selezionato (l’audience di uno degli eventi Made in Cupertino con il suo Keynote d’ordinanza) con il particolare aggiunto grazie agli effetti speciali della Pixar delle cuffiette bianche e dell’iPod in cintura alla bionda e colorata lanciatrice del peso.
Ma andiamo con ordine. Oggi si festeggiano trent’anni dalla messa in onda dello spot Mac che ha fatto la storia e ancora un sacco di gente non sa perché ha fatto la storia. Voglio dire: uno spot che non fa neanche vedere il prodotto, ma semplicemente dice che “Presentiamo il Macintosh … e il 1984 non sarà il 1984”. Perché all’epoca Apple fu la prima a sfruttare la circostanza attorno all’anniversario del libro di George Orwell scritto nel 1948 (il “1984” e solo l’inversione delle due ultime cifre di quell’anno) che a sua volta costruiva una minaccia cupa e fosca nella mente delle persone. Orwell ce l’aveva a morte con i totalitarismi e il lato oscuro dell’uomo e vedeva nel comunismo il grande nemico del futuro, subito dopo il nazi-fascismo.
Quindi il libro di Orwell spiegava come la società del futuro avrebbe potuto trasformarsi in un totalitarismo quale non si era mai visto prima, proiettando il controllo delle persone, la storia riscritta costantemente come la lingua, metà della popolazione che spia l’altra metà. Era il futuro della DDR, per intendersi, della Germania dell’Est durante a guerra fredda, ma oggi si fraintende e si immagina stia parlando di Google e del dominio tecnologico. Magari! Magari il dominio tecnologico dei Big-Data e dell’Internet delle cose di domani stile Google (per dire un’azienda multinazionale) fosse quello del Grande Fratello di Orwell: sarebbe una minaccia antica e già sconfitta, non la possibile tecnocrazia dei Big Data che ci troviamo davanti.
Questa però non è la sede per parlare di Big Data quanto di Big Brother. E chi era il Big Brother per eccellenza? Ma IBM ovviamente. Il freddo burocrate che farfuglia parole di schermo e di dominazione, di schiacciamento delle masse e di appiattimento delle intelligenze sul grande schermo, nonostante un paio di occhiali alla Bill Gates (che hanno poi fatto credere a molti facesse cripticamente o meno riferimento al fondatore di Microsoft) era in realtà il totalitarismo di Big Blue, la cattiveria degli uomini in blu il cui motto era “Think”, al quale Steve Jobs avrebbe contrapposto “Think Different”. Una guerra che va più in profondità e più lontano del dominio delle Microsoft degli anni Novanta e poi delle Google e Facebook del nuovo millennio.
Mettiamola così: Jobs ottiene uno spot molto evocativo e simbolico, che crea una narrazione potente (oggi si direbbe “story-telling”) evocando universi e immaginari senza bisogno di mostrare il prodotto. Un capolavoro. Realizzato dai creativi, attorno all’idea di una lanciatrice del martello bionda con maglietta bianca e pantaloni rossi, unico personaggio a colori in un mondo grigio, che sfugge alla polizia blindata che la insegue per rompere lo schermo e quindi gli schemi del dittatore delle menti davanti a una platea di consumatori-utenti-zombi. Un immaginario al quale Jobs si unisce immediatamente.
L’uomo, infatti, è figlio della rivoluzione californiana del Sessantasei (il nostro Sessantotto), è figlio della contro-cultura, è figlio di Stewart Brand e di riviste di contestazione. È figlio della beat generation, che fisicamente viveva poco a nord della Silicon Valley, ed è figlio delle comuni di Carmel e di Half Moon Bay, dei viaggi in India a cercare se stessi da cui molti non sono mai tornati (non hanno trovato niente? Hanno trovato troppo?) della musica dei Grateful Death. È figlio dell’incontro tra scienza accademica fatta di condivisione tra nerd e di sperimentazione con le droghe ed esperimenti libertari. Alcuni erano hippie, altri erano semplicemente desiderosi di vivere in un altro modo. E l’informatica all’improvviso cambia le carte in tavola.
Dagli anni Quaranta l’informatica era una cosa di aziende che cercavano di fare cose per le grandi corporation e per i militari. I super-computer dell’epoca, si vendevano all’esercito o alle grandi multinazionali. IBM rappresentava, con i suoi venditori vestiti sempre di nero con camicia bianca, l’epitome di questa nuova gamba della contro-rivoluzione. Per un hippie libertario era la dimostrazione che c’era una congiura tra stato, militari, multinazionali e venditori di cervelloni elettronici. Il computer era gigantesco, tutt’altro che personale e “vicino”. Era il pericolosissimo computer assassino di 2001 Odissea nello Spazio. Il modello Hal 9000, che poi “HAL” è semplicemente “IBM” con le tre lettere spostate di uno nella sequenza dell’alfabeto. Insomma, l’informatica era il male e IBM era il suo angelo nero.
Arriva la rivoluzione dei dilettanti, degli sperimentatori, dei maker (si direbbe oggi) che si lancia a partire da metà anni Settanta a costruire un’altra informatica. Ci sono dentro tutti, perché è una rivoluzione culturale oltre che tecnologica: il potere alle masse, decentralizzato, senza più salette con signori vestiti in camice bianco ai quali richiedere elaborazioni di dati come l’aruspico dell’indovino. E Steve Jobs, che questa cosa la capiva molto bene perché la cavalcava (era come una tigre feroce che forse molti non vedevano ancora e che faceva sembrare che Jobs volasse: poi la tigre si è rivelata anche tramite Microsoft e, in tempi più recenti, Google e Facebook) ne aveva fatto un punto personale. Voleva a tutti i costi affermare chiaramente che c’era una rottura, che il 1984 distopico dei grandi regimi totalitari – come regime totalitario era il mercato dell’informatica e non tanto l’informatica di per sé – non ci sarebbe mai stato e sarebbe invece arrivata la rivoluzione libertaria e democratizzante del Macintosh. Avrebbe dimostrato che un altro 1984 era possibile, con buona pace dei malpensanti.
Risultato? Uno dei più spettacolari lanci della storia commerciale di sempre, uno spot che tutt’ora è un capolavoro e si studia nelle scuole di comunicazione e un successo che, in maniera più o meno tangibile, è arrivato sino ai giorni nostri e andrà ancora avanti. Ah, se solo ci fossero ancora sognatori così: grazie 1984, stai maturando molto bene.