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I migliori libri dei grandi giornalisti – parte prima

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I giornalisti scrivono articoli (oltre ad andare in radio e televisione, ovviamente, più i vari podcast) ma scrivono anche libri. E sono anzi dei grandi produttori di libri: raccontano quel che succede, mettono in fila lunghe liste di appunti, di note, li rimaneggiano e poi gli danno nuova forma rispetto agli articoli di giornali. Alcuni non sono molto bravi a farlo, altri invece hanno un talento speciale.

Questa prima parte delle liste dei migliori libri di Macity raccoglie quelli veramente bravi di una volta, gli eroi del dopoguerra, dell’era della ricostruzione e del boom economico, che hanno raccontato l’Italia e il mondo agli italiani. Giornalisti che oggi non ci sono più ma che hanno lasciato un segno imperituri. Eccoli.

Qui trovate tutti gli articoli con i Migliori libri di Macity raccolti in un’unica pagina.

I migliori racconti brevi e minimalisti made in USA

Un uomo

Cominciamo con una donna, la più importante giornalista italiana: la fiorentina Oriana Fallaci, nata a Firenze nel 1929 da una famiglia di antifascisti (fu staffetta partigiana) e scomparsa nel 2006. Ha scritto moltissimi libri e anche alcuni romanzi. Ma il suo più bello e importante, anche per il coinvolgimento personale, è sicuramente questo. L’uomo del titolo è Alekos Panagulis, che nel 1968 viene condannato a morte nella Grecia dei colonnelli per l’attentato a Georgios Papadopulos, il militare a capo del regime. Segregato per cinque anni in un carcere dove subisce le più atroci torture, restituito brevemente alla libertà, conosce l’esilio, torna in patria quando la dittatura si sgretola, è eletto deputato in Parlamento e inutilmente cerca di dimostrare che gli stessi uomini della deposta Giunta continuano a occupare posizioni di potere. Perde la vita in un misterioso incidente d’auto nel 1976.

Oriana Fallaci incontra Panagulis nel 1973 quando, graziato di una grazia che non aveva chiesto ma che il mondo intero reclamava per lui, esce dal carcere. I due si innamorano di un amore profondo, complice, battagliero. Lei lo affianca e ne condivide una lotta mai paga.

Come scrive Domenico Procacci nell’introduzione, “Il poeta ribelle, l’eroe solitario, è un individuo senza seguaci: non trascina le masse in piazza, non provoca le rivoluzioni. Però le prepara. Anche se non combina nulla di immediato e di pratico, anche se si esprime attraverso bravate o follie, anche se viene respinto e offeso, egli muove le acque dello stagno che tace, incrina le dighe del conformismo che frena, disturba il potere che opprime”.

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La rabbia e l’orgoglio

L’altro grande e importante libro di Oriana Fallaci è quello che venne scritto come un moderno feuilleton sul Corriere della Sera all’indomani dell’11 settembre e poi appunto pubblicato come libro. Con questo libro Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di Insciallah, epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama “il-mio-bambino”, pubblicato postumo nel 2008, Un cappello pieno di ciliege.

L’undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi “imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello” dicendosi “tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare”. Il risultato è un articolo sul Corriere della Sera del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all’estero.

Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l’adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.

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Se non mi capite, l’imbecille sono io. Autobiografia irregolare di un genio italiano 

Indro Montanelli è sempre stata la “pennaccia” del giornalismo italiano. Toscano, classe 1909, scomparso nel 2001. Non è mai diventato direttore del Corriere della Sera ma ha fondato prima Il Giornale e poi La Voce. La sua scrittura è sempre stata limpidissima, meno il suo passato durante il regime fascista, che tuttavia alla fine lo arrestò. Nel 1977 venne gambizzato dalle Brigate Rosse. Tornato al Corriere ormai anziano, tenne nonostante questo per anni la sua “Stanza”, rubrica di lettere che ha fatto la storia del giornalismo italiano.

Questo libro è un’autobiografia in forma di raccolta di aforismi, aneddoti e ritratti folgoranti, un manuale di conversazione e un manuale di scrittura, una rassegna ininterrotta di pagine perfette in uno stile senza tempo. Ricostruisce il mondo di cui Indro Montanelli è stato non solo testimone ma protagonista mettendo al centro il suo punto di vista, il suo sguardo, la sua voce: dà quindi particolare risalto ai testi intimi e non concepiti per la pubblicazione come i diari e le lettere, alle interviste, alle risposte ai lettori («l’impegno che m’è riuscito meglio, o meno peggio») e a quello straordinario memoriale appena camuffato da invenzione narrativa,

Disse male di Garibaldi, parte del romanzo Qui non riposano, uscito nel 1945. Questa autobiografia per frammenti contiene cronache di guerra dall’invasione tedesca della Polonia nel 1939 alla rivolta di Budapest del 1956, e non è solo lo stile a essere di sconcertante attualità: presenta una galleria di protagonisti della storia italiana, della politica e della cultura del Novecento colti nei dettagli rivelatori; dà conto di un Montanelli poco noto, in servizio come critico cinematografico; ripercorre le ideologie e le contrapposizioni di un secolo, raccoglie i giudizi sui tratti distintivi del carattere nazionale e si sofferma sulla scrittura e sul mestiere di una vita, il giornalismo al servizio dei cittadini e non del Palazzo.

Questo libro è il naturale punto d’incontro di due desideri: restituire lo spirito di Montanelli, e mirare al puro piacere della lettura, in una festa di battute, lampi, accensioni, rivelazioni che sorprenderanno sia i lettori che credono di sapere tutto di Montanelli sia quelli che lo conosceranno attraverso queste pagine.

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Storia di Roma

Indro Montanelli, che ha pubblicato un centinaio di libri, è famoso soprattutto per la sua serie di volumi della Storia d’Italia alla quale hanno collaborato negli anni Mario Cervi e poi Roberto Gervaso. Non sono i libri migliori da un punto di vista della correttezza scientifica, anche perché sono datati e contengono molti fatti poi rivisti dagli storici. Tuttavia, la sua capacità di divulgazione è straordinaria, anche a tanti anni di distanza.

E inizia tutto con questo libro. Infatti, quando, nel pieno degli anni Cinquanta, pubblicò a puntate sulla Domenica del Corriere la “Storia di Roma”, Montanelli cominciò a ricevere lettere sempre più indignate, che lo accusavano di faciloneria, leggerezza, disfattismo e perfino di empietà, per il suo modo di trattare un argomento considerato sacro. Con quest’opera Indro Montanelli intendeva infatti avvicinare gli italiani alla loro storia, raccontando le gesta e il carattere di uomini vivi e veri, e non di monumenti. E ci è riuscito perfettamente.

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Il provinciale. Settant’anni di vita italiana

Un grandissimo giornalista e testimone dei fatti della guerra è stato il piemontese Giorgio Bocca. Classe 1920, morto nel 2011, ha saputo raccontare l’Italia agli italiani con un passo e una serietà completamente diverse da quelle della stampa d’oggi.

Non ha mai scritto romanzi. Perché è questa autobiografia in realtà il “romanzo” di Giorgio Bocca. La memoria spavalda, insolente, appassionata di un “provinciale” che ha attraversato settant’anni di vita italiana. Un provinciale che, in quanto personaggio guida di questa autobiografia, balza fuori continuamente. Emerge con il tratto burbero della disciplina sabauda, scivola con severa curiosità sul Paese che cambia, si staglia come il vero protagonista della storia sociale italiana: è lui, il provinciale che va alla conquista del mondo, protetto dalla certezza borghese, sospettoso e al contempo permeabile al nuovo.

Consapevole di sé e della sua formazione, Bocca ci restituisce un cammino che penetra nel tessuto connettivo del nostro Paese, sommando personaggi minori e personaggi maggiori, il rumore del mondo e il chiacchiericcio intellettuale. La Topolino degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta sembra aprire una immaginaria pista che arriva sino a noi, per un giornalismo “on the road” che è sempre stato un tratto forte del lavoro di Giorgio Bocca. Dal “cumenda” Angelo Rizzoli al “cavaliere” Berlusconi, da Enrico Mattei “onesto e corruttore” al generale Dalla Chiesa tre settimane prima della morte, i ritratti si animano, memorabili, tolstojanamente protagonisti di quella “marcia inesorabile degli eventi” che è la Storia.

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Togliatti

Bocca fu tante cose ma non comunista. Eppure la sua biografia di Palmiro Togliatti, il comunista più importante in Italia, è fondamentale. E leggibilissima ancora oggi. Questa edizione ha inoltre una bellissima prefazione dello storico Luciano Canfora.

È un libro fondamentale perché almeno due generazioni di italiani non hanno un ricordo di Palmiro Togliatti da vivo. Sono passati cinquant’anni dalla sua morte e di Togliatti è sopravvissuta forse un’immagine di uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, un intellettuale avaro nei sentimenti, un politico scaltro e cinico, troppo filosovietico e ortodosso per ispirare o appassionare. Ma bisogna allora spiegare perché l’Italia proletaria fu pronta all’insurrezione armata quando si attentò alla sua vita, e perché milioni di italiani di ogni ceto ebbero il sentimento, nel giorno della sua morte, che con lui se ne andava uno dei padri della Repubblica.

“Quegli incredibili funerali! Un milione di persone al seguito del feretro, gente arrivata da ogni parte d’Italia, comunisti e non comunisti, gente che ha preso il primo treno, il primo aereo per vederlo l’ultima volta nella camera ardente, gente che saluta con il pugno chiuso o chinando il capo, o segnandosi con la croce, donne e uomini in lacrime come se piangessero un loro padre. Ma l’uomo che è morto non è colui che ha sempre ritenuto la politica cosa troppo importante per lasciarla fare alla gente semplice? Che cosa è che gli italiani piangono in quell’uomo?”.

Giorgio Bocca tentò nel 1973 di rispondere a queste domande: anche solo osare occuparsi di Togliatti per un giornalista (non uno storico) non comunista significava esporsi a critiche e attacchi di ogni tipo.

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Miracolo all’italiana

Terzo e ultimo libro di una produzione in realtà ricchissima, questo racconto di Giorgio Bocca è fondamentale per capire un’epoca, quella del dopoguerra, che ha segnato la nostra storia. Apparso nel 1962, questo libro di Bocca venne accolto dalla grande stampa moderata italiana come un libello rivoluzionario che osava parlar male dei potentissimi del Paese, un libro che si prendeva gioco dei valori della borghesia e che “alternava demagogia a populismo”.

Lo stato d’animo collettivo in quegli anni era decisamente differente da quello attuale. Nonostante una crescita di quasi il sei per cento annuo, l’Italia degli inizi degli anni Sessanta era ancora molto povera, arretrata e modesta. Ma al contrario di oggi quell’Italia aveva un animo lieto e alacre. E nonostante le inevitabili difficoltà della vita, era un Paese percorso da un’idea di grande fiducia e di progresso di sé e del mondo.

Oggi, in una fase segnata dal rancore e dalla paura, quelle pagine potrebbero sembrare lontane. Eppure, lo sguardo di Giorgio Bocca è come sempre fulminante e attuale. Basti solo ricordare l’incipit, tra i più famosi del giornalismo nostrano: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”. Qui Bocca parlava di Vigevano. Ma quanto attuale è questa frase pensando a tutto il nostro Centro-nord, alle distese infinite di capannoni in Veneto, alla Pedemontana così triste e aggressiva dei nostri giorni! Bocca aveva già interpretato i prodromi della trasformazione del nostro Paese. Era già tutto scritto. Bisognava solo vederlo.

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La vita è stare alla finestra. La mia storia

Enzo Biagi è nato nel 1920 e morto nel 2007. È stato forse il più famoso giornalista italiano (ma si contende il titolo con i colleghi qui sopra e alcuni che seguiranno) sia perché scriveva sui giornali sia per la tanta televisione fatta (ha anche diretto il Telegiornale nel 1961). I suoi libri sono tantissimi, ha riempito intere biblioteche. Era infatti estremamente prolifico e con una nota particolare: curioso, sintetico, sempre adagiato nel blues della memoria, di un disincanto non cinico. La sua storia è forse il primo viatico per conoscerlo.

“Sono convinto che i libri di memorie dovrebbero essere pubblicati postumi: sarebbe la garanzia dell’autenticità dei sentimenti.” Così scrisse Enzo Biagi un giorno di gennaio del 2000, due anni prima dell’”editto bulgaro” che portò alla sua cacciata dalla Rai. E in effetti quello dell’autenticità, dell’aderenza alla realtà, della volontà di rappresentare fatti e persone come cronista il cui unico padrone è il pubblico, è il filo lungo cui si dipana la sua intera esistenza, senza mai deviare. Dalla nascita in un paesino dell’Emilia, agli studi, all’incontro con la moglie Lucia, all’esperienza partigiana, fino alle spesso tumultuose tappe della sua lunga carriera di giornalista – con la caratteristica di non durare molto sulle poltrone scomode, avversato dal politico di turno –, Enzo Biagi ha attraversato con grazia e coerenza l’Italia del Novecento raccontando dalla sua “finestra” i fatti come si presentavano: la guerra, il boom economico, il Sessantotto, il tempo delle stragi e la P2, fino al berlusconismo di un’Italia ormai al crepuscolo.

In questo libro che ben si può definire una auto-biografia postuma, lui stesso, con le sue parole ferme e il suo stile pacato inconfondibile, ci accompagna oggi nuovamente attraverso quell’Italia che forse stiamo dimenticando ma che – nel bene e nel male – non possiamo ancora lasciarci alle spalle. Abitata di personaggi straordinari – Fellini e Berlinguer, Mondadori e Rizzoli, Pertini e Ciampi e molti altri – che hanno segnato la vita di un cronista che “ha sempre cercato di dire quotidianamente un po’ di verità in più”.

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Ferrari the drake. L’uomo che inventò il mito del cavallino rampante

L’opera di Biagi è sterminata ma non tutti i suoi libri hanno retto bene il passare del tempo. Cronista, sopra tutto, ha saputo rendere l’immediatezza dei fatti ma molte volte non la loro prospettiva storica. Un’opera volutamente frammentaria. Una cronaca in libreria (genere che l’Italia ha amato per quarant’anni). Tuttavia, ci sono alcuni suoi libri che, un quarto di secolo dopo, dimostrano di aver retto molto bene il passare del tempo. Come questa storia di Enzo Ferrari.

Gli inizi, il successo, i dolori, le paure, le sconfitte e i trionfi di un uomo che fu un grande simbolo del coraggio e del made in Italy. I gran premi, i piloti, Lauda e Ascari, Fangio e Nuvolari, Varzi e Surtees, l’industria La grande vita di un uomo schivo, ombroso e sensibile raccontata da Enzo Biagi. Il volume è completato da un’appendice che fornisce tutte le notizie su gran premi e campionati del mondo ai quali hanno partecipato le “rosse di Maranello”.

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Il sangue dei vinti

Giampaolo Pansa, piemontese nato nel 1935 e scomparso nel 2020, è stato uno dei grandi giornalisti italiani. Ha raccontato i partigiani da sinistra, è stato un attentissimo analista della politica italiana, che ha saputo raccontare per tutti gli anni Settanta, Ottanta e Novanta con grande personalità e dandole colore. Infine, ha “tradito” il suo pubblico di sinistra raccontando un’altra storia, quella che la “sua” sinistra non voleva sentire. E allora è andato senza tentennamenti a destra. Un libro ha scatenato tutto.

Questo libro «ha rappresentato la prima presa d’atto collettiva che esistevano una serie di episodi che non erano stati mai portati al vaglio della coscienza nazionale. Pagine di storia oscurata o rimossa». Sono parole di Ernesto Galli della Loggia, in un colloquio con Luca Telese per la prefazione a questo volume.

A vent’anni dalla prima edizione, continua a parlare a tutti gli italiani di memoria negata, della resa dei conti che seguì ai giorni della Liberazione, delle pagine più oscure della Resistenza vittoriosa sui nazifascisti. Lo scriveva lo stesso Pansa nell’avvertenza alla prima edizione: voleva «spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant’anni». Un risultato raggiunto, che ha innescato un lungo percorso autoriale, il «ciclo dei vinti» che restituisce dignità alle vittime e agli sconfitti della guerra civile.

Un percorso, d’altra parte, che avrà esiti divisivi per la società italiana e che segnerà profondamente lo stesso Pansa, attaccato su più fronti, e molto tenacemente dalla «sua» sinistra, per la scelta «revisionista» di raccontare, senza tabù ma con accortezza storiografica, misfatti, vendette, eccidi, rappresaglie compiute dai partigiani. Un’avventura editoriale che, come scrive Telese, ha fatto di Giampaolo Pansa un «Achab all’inseguimento della balena bianca della guerra civile». E solo la sua morte, nel 2020, «ha schiodato dall’albero maestro il doblone d’oro che Giampaolo aveva piantato, a martellate, esattamente vent’anni prima. Usando come chiodo il libro che oggi avete tra le mani».

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Il rompiscatole. L’Italia raccontata da un ragazzo del ’35

La delicata e a tratti poetica autobiografia di Pansa, che è morto tra mille polemiche e accuse di incoerenza e tradimento, ma che in realtà è sempre stato coerente a se stesso e al suo modo, molto piemontese, di vedere il mondo, la vita e la politica.

Come scrive lui stesso, “‘Tutto ciò che resterà della mia vita è quello che ho scritto.’ Qualcuno l’ha detto pensando a se stesso, però sono parole che si adattano anche a me. Ho sempre voluto scrivere. Alla fine della scuola media, andavo per i tredici anni, mio padre Ernesto mi regalò una macchina Underwood di seconda mano, dicendo: ‘Vedi un po’ se la sai usare’. Mia madre Giovanna mi mandò a una scuola di dattilografia. Ma dopo un paio di lezioni, chi la dirigeva le spiegò: ‘Giampaolo ha imparato subito quanto gli serve. Non butti via i suoi soldi'”.

“Ho cominciato a scrivere nell’estate del 1948 e da allora non ho più smesso. Nell’ottobre 2015 di anni ne ho compiuti ottanta. E ho deciso che potevo permettermi questo libro. Non oso definirlo un’autobiografia, parola pomposa. Allora dirò che è il racconto personale di un vecchio ragazzo destinato a fare il giornalista. Non venivo da una famiglia di intellettuali. Mio padre era operaio del telegrafo. Mia madre aveva cominciato a lavorare a dieci anni ed era stata così brava da aprire un negozio di mode. La mia nonna paterna, Caterina, era analfabeta. Rimasta vedova con sei bambini da crescere, aveva vissuto nella miseria più nera. Troverete qui le loro storie, insieme a quelle di mio nonno Giovanni Eusebio, un bracciante strapelato, e di uno zio paterno, Paolo, un muratore morto a New York in un cantiere. I miei antenati sono questi. E se esiste un aldilà, guarderanno stupiti questo figlio che si è guadagnato il pane scrivendo'”.

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Gli italiani. Virtù e vizi di un popolo

Non poteva ovviamente mancare un fuorisacco, come nella migliore tradizione delle liste dei migliori libri di Macity. In questo caso, un giornalista della generazione precedente agli “eroi del dopoguerra”. Come Luigi Barzini Jr., nato nel 1908 e scomparso nel 1984, figlio di Luigi Barzini Sr. e come lui inviato speciale del Corriere della Sera e di altri giornali, e poi deputato per tre legislature. Visse a lungo negli Usa.

Fu qui infatti che, nel 1964 Luigi Barzini, su commissione di un editore americano, tentò di intercettare la nostra identità in questo libro, descrivendo l’Italia della civiltà immortale e quella delle sciagure nazionali, senza dimenticare l’Italia piena di fascino amata dai turisti. Erano gli anni del boom, la nostra democrazia si andava consolidando, il nostro design dettava legge, così come la nostra cinematografia, la letteratura, il teatro e persino le automobili. Capire chi eravamo diventava quindi un’esigenza diffusa. Fu un enorme successo, il libro che ha definito la sua carriera e la sua memoria.

Oggi, a oltre 60 anni dalla sua pubblicazione, il saggio di Barzini rivela ancora una forza dirompente. Perché nel leggere questa avvincente riflessione sulla nostra storia e sul nostro costume la domanda che ci si pone è insieme semplice e complessa: che libro avrebbe scritto Barzini se avesse dovuto scriverlo oggi? In che cosa ci siamo evoluti e che cosa, invece, è rimasto immobile e mineralizzato?

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