Superchip Intel con AI a bordo per il nuovo portatile? Fatto. Nuovo telefono con CPU fatta in casa usando tecnologie Made in Europe? Fatto. Materiali vietati arrivati dall’embargo commeciale voluto da Washington attivati sottobanco? Fatto.
A raccontare la storia contemporanea di Huawei, colosso cinese del settore tech (noi dall’Italia vediamo solo una frazione di quel che produce, e alle volte sono cose clamorose come l’auto Luxeed S7) in odore di rapporti privilegiati con lo stato Cinese e quindi temuto come super-spia di Pechino da parte di Washington, sembra quasi di girare uno sport per una carta di credito. Fatto, fatto, fatto. Manca solo “impagabile”, ma non è il caso per una azienda con una liquidità monumentale e un giro d’affari da far invidia ai blasonati campioni della Silicon Valley.
Anzi, c’è di più: Hauwei forse supera anche le pubblicità delle carte di credito perché nel settore del trasferimento di soldi digitali, secondo la mappa elaborata da Juniper research, la piattaforma cinese supera Visa e Mastercard, oltre a PayPal e Comviva. Insomma, secondo lo studio Global Digital Money Transfer & Remittances Market 2024-2028, il valore delle transazioni digitali di trasferimento di denaro aumenterà del 41% per arrivare a 4.500 miliardi di dollari grazie all’uso dei cellulari e del denaro digitale per i pagamenti soprattutto nei paesi in via di sviluppo e buona parte del business emergente viene intercettato da Huawei. Senza dimenticare che i pagamenti come servizio (Payment as a Service) sono solo l’anticamera di stablecoin e criptovalute, che stanno emergendo in stati come El Salvador, la Russia, l’India e la Nuova Zelanda.
Il sogno di Huawei
La cosa che però colpisce di più è la resilienza dell’azienda cinese. Huawei è passata quasi indenne attraverso le bordate degli Stati Uniti, che da più di dieci anni si sono impegnati per affossare l’azienda cinese e un pacchetto di poche altre considerate a rischio per la sicurezza nazionale. Le sanzioni più toste risalgono al 2019, ma i blocchi a vario titolo partono da ben prima.
Il motore dei blocchi e delle sanzioni, sempre contestate e aggirate dalle aziende cinesi, è che il “rapporto speciale” tra Pechino e Huawei e le altre aziende messe nella lista dei cattivi fosse la scusa per inserire backdoor e altri strumenti di ascolto all’interno del codice dei telefoni, delle apparecchiature per le infrastrutture di rete (dei quali Huawei è fornitrice in tutto il mondo soprattutto per le reti cellulari 5G) e per i computer desktop, portatili e server.
Certo, c’è il sospetto che in realtà in parte questa sia una vera e propria guerra commerciale, in cui Cina e Usa difendono i rispettivi campioni. E che il protezionisimo serva a difendere gli interessi e gli utili di aziende come Intel e Qualcomm, produttrici rispettivamente dei chip e delle memorie per computer e telefoni cellulari. A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, dicevano un bel po’ di tempo fa nel Bel Paese.
E comunque le due cose, va detto, in un certo senso convergono e coincidono. La supremazia commerciale porta anche al controllo delle tecnologie e quindi alla possibilità di tenere in pugno il destino delle nazioni e dei popoli di tutto il mondo, perché dopotutto al giorno d’oggi ogni cosa gira su computer. Chi fornisce le tecnologie ha il controllo di cosa è disponibile e cosa no.
Huawei e la Cina sognano questo: emanciparsi dal controllo americano e sostituire nel proprio paese e nelle zone di influenza di Pechino le tecnologie americane con le proprie.
Il sogno proibito di Huawei
L’azienda intanto va avanti con un treno. E sta lanciando nuovi prodotti, inclusi alcuni che in teoria non dovrebbe essere in grado di realizzare perché utilizzano la tecnologia vietata degli Usa e dei loro partner commerciali (Italia inclusa).
Ad esempio, due giorni fa Huawei ha presentato il MateBook X Pro, con un chip della Intel Core Ultra 9 con forte predisposizione all’intelligenza artificiale. È la strategia che lega Microsoft (con Windows) e Intel, nel tentativo di ricreare i fasti del mercato “Wintel” di un tempo. Solo che questa strategia non sarebbe dovuta arrivare sino ai produttori asiatici.
Allora come ha fatto Huawei a mettere le mani sui chip Made in Usa e inserirli nei suoi MateBook X Pro? Semplice, se da una parte la Casa Bianca e il Congresso americano vietano, dall’altra parte il ministero del commercio americano lascia la strada aperta ai cinesi. Ma non è finita.
Infatti, lo scorso agosto è venuto fuori con un certo clamore un nuovo telefono Huawei alimentato da un SoC, il Kirin 9000, estremamente avanzato prodotto dalla cinese SMIC, sottoposta a sanzioni, diventando un simbolo della rinascita tecnologica della Cina nonostante i continui sforzi di Washington per paralizzare la sua capacità di produrre semiconduttori avanzati. Come hanno fatto a creare il Soc del Mate 60?
Lo ha fatto sando strumentazione vietata, in particolare le macchine EUV prodotte dall’olandese Asml, azienda spin-off sfortunatissimo per la vecchia casa madre Philips, che ci sta rimettendo una barca di soldi, tra le altre cose.
E non è finita, perché dopo aver lanciato altri prodotti nelle scorse e in queste settimane, Huawei sta preparando il lancio di una nuova generazione di smartphone e vuole portarli rapidamente fuorio dalla Cina, in tutto il mondo. Almeno, in quella parte del mondo dove non è vietato utilizzarli con il PlayStore di Google.
Senza contare, come nota la stampa americana, che il peso delle sanzioni non solo è contrastato dalle strategie di aggiramento messe in piedi da Hawei, che sfrutta una rete di aziende terze, sub-fornitori, filiali sottoaltro nome in altri paesi e tutti i trucchi che si possono immaginare in questo caso. No, c’è anche un altro aspetto.
La stragia del silenzio
Infatti, dovendo tenere un basso profilo per evitare di dichiarare a destra e a manca l’uso di tecnologie che poi si scopre essere in realtà vietate ai cinesi, come le CPU delle ultime generazioni di smartphone, Huawei ha adottato un profilo bassissimo, con lanci in sordina, presentazioni indirette, soprattutto (novità nel mondo Android) senza spingere l’acceleratore sulle specifiche tecniche. È un approccio simile a quello di Apple o della vecchia OnePlus, e sta funzionando, perché crea un discreto chiacchiericcio attorno ai prodotti tenuti quasi segreti, seguendo la logica che se non se non viene strombazzato da tutte le parti allora diventa un segreto per chi è bravo a capirlo.
Come Apple, che non ha mai indicato chiaramente le componenti interne dei suoi apparecchi, preferendo sototlineare le loro dimensioni d’uso con indicazioni molto generiche. E come OnePlus degli esordi, quando era una sorta di club a invito che rilasciava telefoni come i drop di Supreme: occorreva saperlo e avere l’invito.
Questo tipo di marketing, quando ben orchestrato, è molto potente. E mostra una cosa che nessuno si aspettava: alla fine le sanzioni americane stanno aiutando Huawei ad avere una discreta visibilità e attrattività nel mercato.