Il 2001, anno che tutti ricordiamo per gli attacchi terroristici alle Torri gemelle e al Pentagono avvenuti l’11 settembre, è memorabile anche per un altro motivo. Alcuni mesi prima, infatti, la Cina entrò nella WTO, la organizzazione mondiale per il commercio. Si trattò di un fatto di rilevanza enorme che però, per alcuni anni, finì nel freezer della storia, troppo impegnata con le guerre al terrore che hanno sconvolto il mondo per quasi dieci anni.
Ma, una volta finita la “global war on terror” della presidenza di George Bush, è iniziato lo scongelamento della Cina come giocatore di primaria grandezza nel mondo del commercio. Se prima Pechino viveva separata e lontana dall’Occidente, la dottrina politica di arrivare a un’economia di mercato senza le strutture democratiche caratteristiche dei paesi occidentali è diventata via via sempre più importante. Ci si chiede spesso se l’economia della Cina sia più comunista o capitalista. La risposta è sorprendente: “entrambe le cose, e nessuna delle due”.
Il peggior nemico di sempre
Tuttavia, dal punto di vista degli Stati Uniti, la Cina è diventata immediatamente il nemico pubblico numero uno, anche nel settore tecnologico. La cosa merita una spiegazione brevissima, anche perché non è sempre chiaro a tutti. Ma il viaggio compiuto da quel Paese è stato davvero notevole: dalla povertà assoluta dopo la guerra, nelle fasi più dure e ingiuste della rivoluzione politica e culturale (un esempio si ritrova ad esempio nella prima puntata della prima stagione della serie televisiva “Il problema dei Tre Corpi” disponibile su Netflix) la Cina ha fatto una cavalcata lunghissima che l’ha portata oggi ad aver riacquistato il suo posto di superpotenza economica oltre che militare e politica.
Cosa questa che non piace agli Usa sia perché mette a rischio la loro egemonia sia perché espone il resto del mondo a una alternativa al “modello americano” che, come vedremo tra un attimo, tocca tutti gli aspetti della società.
Il più grande mercato al mondo
La trasformazione è avvenuta nel tempo. Innanzitutto, la Cina è diventato il posto perfetto dove spostare la produzione per via del basso costo del lavoro e alta capacità tecnica; si chiama “esternalizzazione” ed è il fenomeno economico a cui hanno partecipato negli ultimi trenta anni tutti i big di qualsiasi settore, a partire dalla tecnologia con le fabbriche di Foxconn e altri che producono qualsiasi cosa, da Apple in giù.
Ancora, la Cina è anche il posto perfetto per vendere moltissimi prodotti grazie alla popolazione sempre più numerosa, in buona parte giovane e con sempre più soldi; ogni anno entrano nella fasica della “classe media” milioni di cinesi, e gli effetti ad esempio sul turismo si sono a lungo visti anche in Italia.
Il capitalismo comunista
La ricchezza è diventata anche in Cina un bene prezioso, forse ancora di più che altrove perché rende felice la popolazione e questo evita problemi ad esempio alla elite al governo, che fa tutto per assicurarsi della coesione sociale cinese. Così, se guardiamo a quel che è successo, il 1978 ed il 2020, la Cina è completamente cambiata, passando rapidamente dalla scomoda posizione di una tra le potenze economiche più povere e isolate del mondo, con un prodotto interno lordo pro capite pari a meno di duecento dollari, a diventare un colosso capace di competere in tutti i settori econonomici: dalla produzione di auto a quella di aerei, dalla logistica all’industria meccanica fine, sino all’elettronica.
Questa straordinaria cavalcata economica in Occidente è stata a lungo minimizzata. La Cina è stata percepita come un posto in cui le persone lavorano nei capannoni affastellate a centinaia, con scarsissima qualità e scarsa resa. Forse era vero un tempo, ma oggi è l’immagine più lontana dalla realtà che si possa immaginare. Migliaia e migliaia di fabbriche con milioni di persone producono oggetti di qualità altissima (sono gli oggetti che usiamo quotidiananamente) e molti di essi vengono anche progettati in Cina. Il mito della Cina incapace di fare ma solo di copiare e pure male è diventato appunto quello: un mito. Quella che è la realtà, invece, è un’altra: la Cina è un paese comunista e anti-democratico, all’antitesi con i valori dell’Occidente e quindi la sua egemonia economica e culturale nel futuro è molto pericolosa. Ma anche questo spesso passa in sordina.
Il grande gioco dell’informatica
La Super Cina è l’unico soggetto capace di impensierire gli Usa in uno dei settori che gli americani considerano più “loro”, cioè l’informatica. La storia della “computer science” è completamente dominata dall’industria statunitense sia dal punto di vista della ricerca che della sua applicazione concreta. Non solo la quasi totalità delle grandi aziende tecnologiche sono americane, ma anche i concetti stessi alla base di come percepiamo il mercato dell’informatica (il concetto di personal computer, di smartphone, di server, di rete internet, di cloud) derivano tutti dallo sforzo di aziende americane.
Paese meticcio per eccellenza, l’America con il suo “sogno” è capace di richiamare i migliori talenti del mondo e accoglierli a tal punto da metterli in grado di brillare. Quindi, se anche è un italiano l’inventore del microprocessore, cioè il “nostro” Federico Faggin, in realtà la sua invenzione è avvenuta negli Usa, all’interno di una grande azienda americana (Intel) ed è a tutti gli effetti “Made in Usa”.
Perché il computer è più importante
L’informatica, oltre a essere una fabbrica sterminata di gadget, è anche uno dei più grandi fattori di sviluppo dell’economia e di trasformazione dell’umanità. Chi la controlla l’informatica controlla il mondo e questo gli Usa lo sanno benissimo, tanto che gli Stati Uniti hanno inziato una serie di misure protezionistiche, compresi divieti di esportazione e improtazione di tecnologie e prodotti, e una vera e propria guerra commerciale con la Cina.
Quindi, dal blocco di Huawei, che non può più accedere a tecnologie americane (come altri produttori cinesi) nel settore degli smartphone, al divieto di esportazione di macchine per produrre i processori, nel tentativo di tenere sotto scacco l’industria cinese dei personal computer, dei tablet e degli smartphone. Per evitare i cloni di fabbriche americane, come Intel, e taiwanesi, come Tsmc.
La riposta del dragone
Ma se gli Usa vietano alla Cina di aprirsi ancora di più la strada negli Usa, cosa peraltro difficile visto questo rapporto duplice da un lato di concorrenza e sicurezza, ma dall’altro di dipendenza come grandissimo mercato, è anche vero che i cinesi non stanno con le mani in mano. E stanno cercando di affrancarsi dalla dipendenza americana.
Questo avviene lungo due direttrici. Da un lato lo sviluppo di tecnologie autoctone, soprattutto nel campo dei microprocessori ma anche in quello del software, e dall’altro dall’esclusione di una serie di tecnologie americana dalla Cina. In particolare, microprocessori, memorie e poi Windows di Microsoft.
Le nuove linee guida del governo cinese ordinano alla pubblica amministrazione nei prossimi mesi di far fuori i server e i PC con processori Intel o Amd, e di ridurre o eliminare del tutto (e molto rapidamente) sia Windows che i database “stranieri” (intesi come strumento software per le aziende).
La lunga marcia tecnologica
La domanda che nasce adesso è ovviamente: Pechino con cosa sostituirà tutta questa tecnologia? La risposta è un po’ complessa ma ruota sostanzialmente attorno a tre fattori. Il primo, per quanto riguarda il software, è l’open source. La Cina non sembra nell’immediato avere intenzione di fare particolari investimenti nello sviluppo di un sistema operativo “locale”. Invece, ha tutta l’intenzione di sviluppare una distribuzione di Linx che risponda ai requisiti stabiliti da Pechino, cioè che sia “sicura e affidabile” oltre che non-Microsoft.
Il secondo fattore riguarda i processori, anche questi “sicuri e affidabili” (secondo l’eufemismo cinese) che saranno selezionati. C’è una blacklist (dove rientrano gli americani) ma c’è anche una lista di processori approvati: 18 per la precisione. Dentro ci sono chip fatti da Huawei e da Phytium, azienda controllata dal governo cinese. Le architetture sono in parte conosciute: un mix fra x86 di Intel, Arm e altre, sviluppate internamente. Sono figli del “Dragone rosso” degli anni Novanta, cioè i processori LongMeng e Godson.
Obiettivo Xinchuang
I burocrati cinesi hanno trovato una espressione per incasellare questo sforzo, contemporaneamente di boicottaggio delle tecnologie straniere e di sviluppo delle proprie soluzioni autarchiche, ma anche di trasformazione del modo con il quale la tecnologia viene usata nel Paese. Si tratta della Xinchuang cioè ”Innovazione delle applicazioni ICT”.
Questo sforzo di cambiamento e trasformazione nei prossimi anni coinvolgerà tutta la macchina amministrativa cinese, che è enorme e smisurata. Ma, pianifica Pechino, questa trasformazione non si fermerà negli uffici degli amministratori centrali e locali. Invece, presto contagierà anche le aziende, sia quelle collegate direttamente allo Stato cinese che le altre, e poi, spera Pechino, i privati. Non è una partita da giocare tutta nel breve periodo, richiederà molto tempo, ma il tempo è quello che non manca a Pechino.
Il blocco della elite al governo della Cina, che non sottostà alle alternanze tipiche della politica occidentale dove le elezioni spingono i politici a cercare risultati immediati per essere confermati, favorisce lo sviluppo di piani di lungo e lunghissimo periodo. La Cina soffre di molti mali, tra cui la mancanza di una vera democrazia, ma non di quello tipico dei Paesi occidentali, cioè di politici che cambiano spesso e radicalmente idea a seconda della momentanea sorgente di benessere economico e sociale delle classi medie.
Il problema americano
La svolta protezionistica della Cina nei confronti degli Stati Uniti stava arrivando da tempo e fa parte di un processo di indurimento delle relazioni tra i due Paesi. L’America di Trump e poi di Biden aveva già vietato l’uso di computer e telefoni cinesi in tutta la sua pubblica amministrazione federale e in molte di quelle statali e sta spingendo per altri blocchi nell’esportazione di tecnologia complementare alla produzione dei chip. È stato un protezionismo nel protezionismo molto sentito anche economicamente dai produttori cinesi.
Ora, il problema è invertito ed è innanzitutto per le grandi aziende americane che producono semincoduttori: Amd e Intel.
Il boomerang delle sanzioni
L’anno scorso la Cina è stato il mercato più importante per Intel, che là ha effettuato il 27% delle sue vendite. Per Amd è “solo” il 15%. Ma questo non è che il primo passo. Perché dopo seguiranno anche i sistemi operativi e database. La Xinchuang sta procedendo molto più rapidamente ad esempio nel settore del cloud e dei centri di calcolo, dove uno dopo l’altro vengono eliminati i vecchi server Intel e Amd, e sostituiti con i nuovi. Da qui al 2027 ci saranno almeno 100 miliardi di dollari di investimenti per fare questa sostituzione, che sarà anche la linfa vitale per investire e produrre nuovi processori locali sempre più potenti.
Tutto questo si traduce in un enorme problema per gli Stati Uniti e le sue aziende (Apple compresa), che adesso devono trovare un modo per contrastare la Cina, che sta giocando al loro stesso gioco.
Ma, come ha spiegato già un anno fa Morris Chang, fondatore di Tsmc e gran vecchio (ha 91 anni) del settore tech, quello che vuol dire veramente tutto questo è semplice: è finita la globalizzazione dei chip e presto torneremo ai blocchi autarchici separati.