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Google e l’amore improvviso per l’intelligenza artificiale

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Un amore è scoppiato a Mountain View. È l’amore per l’intelligenza artificiale. Che poi, detto così, vuol dire tutto e niente. L’intelligenza artificiale è un insieme di teorie e tecniche diverse per far lavorare i computer cercando di ottenere risultati “intelligenti”. È un filone non nuovo, anzi. Nata negli anni Sessanta, quando l’America della guerra fredda si innamorò dell’idea che il cervellone elettronico capace di pensare e agire come una persona, ha immediatamente disatteso le promesse fatte dai suoi padri.

E ha anche rinviato di quarant’anni almeno i risultati più significativi, che sono arrivati dalle reti neurali e poi dall’approccio del machine learning. Anziché cercare di creare un cervello fatto come quello umano, che ha troppi neuroni e sinapsi oltre a funzionare su base elettrochimica e non digitale, si crea invece un sistema capace di pensare alle soluzioni dei problemi che gli vengono insegnati. Non a caso la professione di “addestratore di intelligenze artificiali” è considerata davvero uno dei lavori del futuro.

Google intelligenza artificiale

L’evoluzione è da tempo sui tavoli dei grandi boss della Silicon Valley: come aveva osservato una volta Steve Jobs, si tratta di identificare un vettore di sviluppo di una tecnologia e prevedere se e quando arriverà a maturazione. Quando Scott Forstall volle portare la voce dell’assistente digitale Siri dentro l’iPhone (come una acquisizione di una piccola società specializzata in machine learning, speech-to-text, cioè riconoscimento vocale, e text-to-speech) l’idea era piuttosto chiara: l’intelligenza artificiale sarebbe arrivata accanto alle persone. La stessa cosa aveva capito Microsoft e Amazon. Facebook e Google erano invece immersi in una partita differente, tutta centrata sui big data e sulla capacità di fare analisi dei dati, prevedere i comportamenti, suggerire gli usi.

Però le aziende gigantesche al loro interno hanno anche le risorse per portare avanti piani B, piani C e anche altri ancora. Adesso i ricercatori di Google raccolgono i frutti di una convergenza interessante. L’azienda sta facendo uno sforzo molto grande per portare una serie di tecnologie dal cloud direttamente sugli apparecchi degli utenti. E sta anche facendo uno sforzo per produrre apparecchi fisici che accompagnino la vita delle persone (dalle basi per parlare in casa ai dongle da appendere al televisore fino ai telefonini, come si è visto ieri) integrando verticalmente le sue tecnologie cloud con quelle hardware.

Google intelligenza artificiale

Nel mezzo c’è il tentativo di riorganizzare tutto, con una spettacolare virata che una gigantesca nave da crociera come Google intraprende per gradi e progressivamente, ma in maniera netta e con risultati decisamente ragguardevoli, quando le si dà un po’ di tempo per manovrare. Circa un anno fa l’azienda ha cominciato a cambiare radicalmente attitudine per quanto riguarda l’hardware e per quanto riguarda l’ordine dei suoi servizi cloud. L’arrivo dei manager provenienti da altre esperienze aziendali più serie e strutturate, ha portato anche a una differente razionalizzazione dei prodotti. È sostanzialmente tramontata l’era della grande innovazione casuale e anarchica, in cui progetti interni ed esterni, curati dai singoli o voluti dall’altro si sovrapponevano in una ridda di silos e servizi separati. Adesso si lavora all’integrazione e alle economie di scala.

In questo per Google un ruolo centrale lo ha il cloud e, all’interno di questo, le tecnologie per avere cluster di server che lavorano con oggetti informatici totalmente digitali che erogano servizi di intelligenza artificiale. In questo contesto, visto che il cloud è uno straordinario disintermediatore di funzioni e di livelli, la cosa più sensata è portare direttamente dentro gli apparecchi delle persone l’intelligenza artificiale. Ripetiamo: lo fa da tempo soprattutto Amazon, che ha lavorato forse più di tutti e più a lungo sul concetto di cloud. E lo fa anche Apple, assieme a varie altre aziende presenti sul mercato, tra le quali non va certo dimenticata la nuova Microsoft di Satja Nadella. Tutti assieme lavorano per fare quello che è poi la missione dell’informatica personale: rendere più semplice la vita delle persone, fornendo assistenti digitali, biciclette per la mente, strumenti non solo di passiva comunicazione.

Google intelligenza artificiale

Il risultato di questi piccoli apparecchi innovativi, all’interno dei quali le varie Google immergono un po’ di polverina magica dell’intelligenza artificiale ma anche della capacità di raccogliere e processare le informazioni (perché se la macchina non sa niente del contesto e della persona della quale sta facendo da assistente, non può fare quasi niente), è sotto gli occhi di tutti. Riconoscimento delle fotografie, riconoscimento delle informazioni utili nei messaggi email. Riconoscimento di tutto, preparazione di percorsi intelligenti che, vent’anni fa, venivano raccontati al CES di Las Vegas da Bill Gates: l’auto intelligente, la casa intelligente, l’assistente digitale che pianifica la giornata, interagisce con la persona, fa da segretario e da promoter, da ricercatore e da confessore.

Oggi queste cose arrivano ma ovviamente in modo diverso da come erano state dipinte dai vari Bill Gates una vita fa. Merito di Google e del suo attuale Rinascimento, una nuova spinta che fa da età matura per l’azienda non più aggressivamente giovanile e “diversa” dagli altri big tecnologici non solo della Silicon Valley.

Google ha flirtato a lungo con la Cina e adesso si appresta, come anche Facebook, a investire pesantemente in quei mercati per una seconda volta, nella speranza di impedire che escano fuori nuovi avversari capaci di schiacciarla. Il futuro è negli assistenti digitali, che toglieranno milioni di posti di lavoro ai colletti bianchi, alle professioni evolute (medici, architetti, avvocati, impiegati, funzionari, dirigenti, informatici, sistemisti) sostituendoli con sistemi di machine learning e di gestione centralizzata e semplificata. Ma questa è un’altra storia, che ci racconteremo meglio nei prossimi cinque-dieci anni.

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