La notizia, se la si vuole credere, è destinata a sollevare polemiche. Perché sfata un mito fondante l’etica del mondo open source. Niente di grave, niente di Linux come sistema operativo è cambiato e tantomeno distrutto. Però, secondo una ricerca portata avanti nei mesi scorsi da Jonathan Corbert per LWN.net relativamente all’evoluzione del kernel di Linux (uno dei due progetti di successo del mondo OS insieme ad Apache) sono programmatori professionisti pagati dalle loro aziende per fare questo lavoro: creare codice open source. Non sono, cioè, gli utenti qualsiasi, l’uomo della strada in cerca di un software usabile.
Secondo la ricerca, l’84,7% degli utenti sono solo tali: utenti. Solo l’1,9% crea programmi, solo lo 0,9% fornisce patch al kernel. A fare il lavoro sarebbero programmatori professionisti di Red Hat (che peraltro è quotata in Borsa), Ibm, Novell, Linux Foundation (dove lavora pagato Linus Torvalds), Intel e Oracle.
Il fatto è che la capacità del software open parrebbe essere più una sorta di accordo tra aziende per competere meglio contro i grandi monopolisti del software, segnatamente dei sistemi operativi come Microsoft, che non un vero e proprio progetto gestito dal basso e rappresentante una utopia incarnata dell’intelligenza di massa. L’intelligenza è una forma alquanto interessante e mutata della stessa intelligenza aziendale che spinge da tempo immemore le imprese a competere in cerca di profitti.