Chiusa una porta, se ne apre un’altra, dicevano i nostri nonni e forse l’antico adagio, pieno di saggezza popolare, si adatta anche a quel che sta succedendo in queste settimane ad Apple, in riferimento all’accordo con Google sulla ricerca e il futuro di Siri.
La porta che si chiude è quel tesoretto di 20 miliardi di dollari all’anno (praticamente il fatturato di una grande azienda europea) che Google ogni anno versa ad Apple per farle mettere il motore di ricerca di Mountain View come default nel suo browser per tutte le sue piattaforme.
È un default, ci sono altre quattro alternative (Yahoo, Bing, DuckDuckGo ed Ecosia) ma si sa che il potere dei default è proprio quello per cui la gente non lo cambia. Ci sono svariate pubblicazioni scientifiche al riguardo, alcune delle quali usate dal giudice americano Amit Mehta che ha trovato Google colpevole di abuso della posizione di monopolio.
Cosa sta succedendo
Il giudice dovrà stabilire i “rimedi”, cioè le compensazioni per mitigare questa situazione, e probabilmente impatterà in maniera frontale Apple, che vedrà questa fonte di fatturato gratuito estinguersi se non completamente almeno in maniera molto importante.
Dopotutto, ha argomentato il giudice Amit Mehta, i soldi che Google dà ad Apple (come a Firefox e a Samsung, per dire) servono proprio a disincentivare l’attività di ricerca e gli investimenti per fare un proprio motore di ricerca.
E qui entra in gioco la porta che si apre. Il mondo della tecnologia è una specie di montagna russa, dove ogni giorno si sale e si scende. Questa volta il punto è quello della realizzazione di nuovi tipi di motori di ricerca basati sull’intelligenza artificiale. OpenAI ha già annunciato Search GPT e chiaramente gli sviluppi vanno nella direzione di portare nel “search” una funzione di “AI”.
Il search nel tempo
Non è una cosa completamente priva di senso: a inventare l’idea di ricerca è stata inizialmente Yahoo. Cioè, non è stata la prima, ma all’inizio ha avuto più successo di molti altri. Solo che la sua era una ricerca ordinata per categorie attraverso una enorme directory ad albero di siti web. Una idea che non poteva scalare man mano che il web di fine anni Novanta si ingrandiva. E infatti non ha scalato. Perché i siti andavano registrati e taggati con le parole chiave a mano. E poi più volte verificato che fossero ancora attivi e facessero sempre le stesse cose.
Chi è riuscito invece a fare la differenza in questo campo, all’inizio del XXI secolo, è stata Google con la sua innovazione tecnologica del page ranking e dei sistemi automatici di crawling del web. Già all’epoca, a partire dal 2000, si estraevano informazioni dai siti e questo addirittura pagavano e pagano consulenti per facilitare questa estrazione nel migliore dei modi.
Search AI e Web 3.0
Oggi questa ricerca può essere fatta in maniera anche semantica oltre che basata su algoritmi e parole chiave. Non come pensava Tim Berners-Lee quando ha immaginato un Web 3.0 (diverso dal web3 delle cripto e della blockchain) in cui gli attributi dei siti fornivano una chiave interpretativa semantica di cosa ci fosse dentro.
L’idea di Berners-Lee era quella di continuare a contribuire in maniera articolata alla coltivazione e crescita del web. Cosa che invece la ricerca basata sulle AI non fa. Il business model di OpenAI è infatti quello di avere i contenuti gratuitamente facendo scraping dei siti, addestrando le sue AI e fornendo direttamente la risposta senza bisogno di andare sul sito. La morte delle individualità oltre che della pubblicità.
Un approccio che, se così strutturato, mette a rischio l’idea stessa di libero web in cui milioni e milioni di persone, non solo aziende, hanno riversato idee, pensieri, riflessioni, conoscenza, cultura. E anche tantissime stupidaggini, certamente, ma è più probabile che queste siano nei social (che tengono i cancelli dei loro regni privati ben chiusi, vedi Facebook) che non nei siti web.
Il colpo di sponda per il futuro Siri
Tutto questo però fa parte di una evoluzione che per Apple potrebbe essere positiva perché la spinta all’innovazione che arriverebbe da parte del giudice la costringerebbe a essere ancora più risoluta. Non tanto nello sviluppare quel motore di ricerca di cui si parlava cinque anni fa, bensì qualcosa di diverso.
John Giannandrea, l’ex-Google che oggi gestisce la Apple Intellligence ha anche un team per il search sotto di lui. Ma si tratta di un team che lavora alla realizzazione di funzioni interne (trovare le cose dentro il sistema operativo). Quelle funzioni che potrebbero portare Apple a far maturare in maniera sostanziale Siri.
E questo sarebbe lo scenario migliore: calo di fatturato “gratuito” dopato da parte di Google e aumento di quello organico derivante dalla capacità di Siri di intendere e di volere. Non male, se davvero potesse succedere.