Si legge fotoritocco, ma si pronuncia danno, soprattutto se di mezzo ci sono adolescenti. È quanto emerge dal progetto “Selfie Harm” del fotografo John Rankin, che ha voluto indagare il ruolo che hanno social media nella costruzione dell’immagine di sé dei ragazzi, che si confrontano quotidianamente nelle gallerie dei social network, con ansie, paure e successi dettati dai like ricevuti dalle proprie fotografie.
Rankin ha scattato foto a un gruppo di adolescenti, ragazzi di età compresa tra i 13 e i 19 anni, poi ha chiesto di passare qualche minuto a modificare gli scatti utilizzando una delle tante app per selfie in commercio. Il risultato è stato significativo: “Le persone vogliono imitare i propri idoli, rendendo i propri occhi più grandi, il naso più piccolo e la pelle più luminosa: tutto per ottenere dei like sui social”, ha dichiarato il fotografo su Instagram.
Il progetto è stato realizzato con l’agenzia M&C Saatchi e MTArt. Gli scatti ottenuti dal fotografo sono stati successivamente accostati con le immagini che sono state ritoccate.
Questo fenomeno è stato soprannominato Dismorfismo di Snapchat ed è un tipo di disturbo di dismorfismo corporeo virtuale. App come Facetune, SelfieCity, RetouchMe e altre possono essere utilizzate per ritocchi lievi fino alla chirurgia estetica digitale completa.
“Quello che si può fare con queste app va molto oltre a ciò che è possibile fare con Photoshop – ha aggiunto il fotografo -. Sono avvincenti, impressionanti e divertenti: puoi cambiare e reimmaginare il tuo aspetto, ma è quando le persone creano un’identità social media alternativa che questo diventa un problema di salute mentale”. Un disagio causato dal lato oscuro della tecnologia e, in particolare, dai selfie e dall’ossessione per la cura – sullo schermo – della propria immagine.
Rankin crede che la causa di questo disagio letto attraverso il suo progetto fotografico – che potrebbe anche trasformarsi in un problema serio di salute mentale e nei casi più al limite, in disturbi alimentari – derivi non solo dai social media, ma anche dai modelli iperidealizzati scelti dalla pubblicità.
Un progetto, quello di Rankin, che mostra, oltre a quanto possa essere negativa l’influenza dei social media nella costruzione e considerazione dell’immagine di sé, anche un segno di speranza. La maggior parte dei soggetti fotografati da Rankin, come racconta lo stesso autore, “alla fine ha preferito la propria immagine originale rispetto a quella modificata con le app”.