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Fenomenologia di Apple e del suo Ceo

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Una volta le nonne dicevano: guarda com’è bravo e istruito quello, quando parla son sentenze. Ecco, quando parla Steve Jobs, a quanto pare, sono milioni di dollari. Decine, centinaia. Fino a 300 milioni di euro, come segnalavamo precedentemente. Tanto è il valore, calcolato da un professore di economia di Harvard, dell’impatto che il keynote di San Francisco dello scorso gennaio ha avuto sui mezzi di comunicazione se fosse stata invece una campagna pubblicitaria. E siamo ancora stretti, perché dentro non ci sono le onde lunghe dell’informazione nei paesi del resto del mondo.

Per questo, quando si dice che Steve Jobs ha sbagliato ad annunciare l’iPhone con tanto anticipo, che ha fatto valutazioni eccessive sulle vendite future, che ha scelto la tecnologia (chiusa) sbagliata, che – infine – al mondo comunque non c’è spazio per un altro avversario di Symbian, Windows, Linux, BlackBerry e Palm (senza contarne un altro paio di “minori”) forse si fanno i conti senza l’oste.

Certo, è marketing e comunicazione, un’arte in cui Steve Jobs è una sorta di forza della natura. Però, dietro, verrebbe da aggiungere, forse c’è qualcosa di più. Insomma, è vero che le Borse e gli investitori non necessariamente sono dei geni e l’azzeccano sempre (anzi, purtroppo spesso sbagliano e prendono delle cantonate micidiali), ma è anche vero che qualcosa di profondo sta cambiando dentro ad Apple.

Prima cosa: l’azienda ha cambiato nome e adesso vende cose molto diverse da prima e con tempi più dilatati. E’ finita l’ansia del 2005-2006 di rilasciare qualcosa di nuovo ogni mese. Praticamente, sono finite le grandi transizioni: abbiamo Intel, abbiamo – questione di settimane o al massimo qualche mese – il nuovo sistema operativo, abbiamo un orientamento di prodotti diverso sul mercato, abbiamo inedite ed eccitanti tecnologie – come il multi-touch dell’iPhone, e ve lo dice chi l’ha potuto seppur brevemente usare.

Seconda cosa: mai come oggi Steve Jobs è stato centrale nel suo ruolo di Ceo di Apple. Anzi, è quasi pericoloso che sia così, visto che nessuno dovrebbe essere indispensabile. Ma lui lo è, e nelle analisi più conservative una sua eventuale uscita improvvisa dall’azienda farebbe lasciare almeno metà  del valore dell’azienda in Borsa. Questo è un problema.

Terza cosa: Apple ha di nuovo una visione. Che non è una visione solo idealistica (lasciare un segno nella storia, come lo stesso Jobs impostò l’azienda alla fine degli anni Settanta-inizio Ottanta con Apple II e Macintosh, prima di essere estromesso dall’azienda. E’ anche una visione da azienda (Apple sta producendo valore per i suoi azionisti) moderna (Apple sta producendo valore per i suoi stakeholder ed esprimendo una visione del business che è antesignana per molti aspetti di quelle di molte altre aziende) e solidale (Apple sta producendo valore per i suoi clienti, portando prodotti che non siano solo profittevoli per lei ma anche per chi li compra, a differenza di come ha fatto ad esempio Microsoft per decenni).

Quarta ed ultima cosa: la reputazione di Apple è diventata una cosa seria, l’azienda sta costruendo non una nuova immagine (una cosa che qualsiasi buon ufficio stampa può fabbricare e qualsiasi incidente di media gravità  può distruggere) ma una reputazione (una cosa tridimensionale, che vale, che le persone apprezzano al di là  di un mero rapporto commerciale ma che è in realtà  il sale delle relazioni interpersonale) che a questo punto – nonostante una serie di fatti negativi che l’hanno assediata nel tempo – si può dire sia più che consolidata. Anche questa è una novità .

Ecco perché dietro al marketing e alla comunicazione, che un semplice discorso di 90 minuti porta a un pazzesco valore di 300 milioni di euro, c’è di più. C’è che il mondo e il business stanno cambiando, non solo per l’informatica. E, sorpresa, a fare surf sulla cima di quest’onda, indicando nuove spiagge verso le quali dirigersi, è la buona, vecchia Apple.

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