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Fare bene e fare del bene, il problema dei miliardari del tech

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Alcuni giorni fa un anonimo lettore del Sole 24 Ore, che si firma G.A (senza il secondo punto, sic), ha comprato una intera pagina pubblicitaria per lanciare un messaggio: “Egregio Mr. Bezos, mi complimento con Lei per la scelta di donare in futuro una parte del Suo patrimonio per salvaguardare il pianeta. Nello stesso tempo mi permetto di chiederLe di annullare il licenziamento di 10.000 persone, pensando prima all’uomo e poi al pianeta”.

Il messaggio è diventato virale ed è circolato anche sui social (qui su Twitter) creando una certa conversazione, se non altro in Italia. Probabilmente sarà stato inserito in qualche rassegna stampa per Jeff Bezos, che difficilmente è immaginabile che dia una risposta diretta, anche perché non c’è una domanda esplicita alla fine.

Fare bene e fare del bene, il problema dei miliardari del tech

Il riferimento è alla notizia che Bezos ha dichiarato di voler donare gran parte del suo patrimonio (attualmente stimato di 124 miliardi di dollari) in beneficenza e di volerlo fare durante il corso della sua vita (cioè non come eredità una volta morto).

La vicenda, sia la dichiarazione di Bezos, che non è il primo big del tech a voler fare una cosa del genere. L’esempio più classico è quello di Bill Gates, che è stato a lungo l’uomo più ricco del mondo e che ha “bloccato” parte del suo patrimonio trasformandolo nella Fondazione Melinda e Bill Gates.

divorzio gates

Questa logica è abbastanza nota e condivisa in maniera non critica dalla stampa e nella società americana, perché si basa su una serie di assunti non solo di natura fiscale (le donazioni hanno un impatto sul montante da pagare all’Internal Revenue Service o IRS). Fa parte, si dice abitualmente, di un approccio alla vita di impostazione Protestante, che è piuttosto complicato da spiegare nelle sue ramificazioni attuali, ma ci arriviamo tra un attimo

Prima bisogna ricordare che altri fondatori anche meno ricchi, come Steve Jobs che aveva un patrimonio di circa 5 miliardi di dollari al momento della sua morte, hanno detto di non voler fare fondazioni e beneficienza perché riteneva che l’attività della sua azienda fosse già orientata a generare ricchezza per i suoi stakeholder e quindi al bene collettivo, quella che viene chiamata responsabilità sociale d’impresa. La strategia di Tim Cook relativa all’ambiente, alla privacy, ai diritti e alle altre attività delle quali tante volte abbiamo parlato qui su Macity è letteralmente il testamento della visione di Steve Jobs e una forma di innovazione profonda di cosa si intenda per Responsabilità sociale d’impresa.

Un concetto che ha non solo denigratori ma anche veri e propri nemici, non ultimi tra gli altri Warren Buffett, il miliardario investitore con la sua holding Berkshire Hathaway: l’«oracolo di Omaha», che ha un patrimonio di circa 100 miliardi di dollari ed è un grande investitore sia di Apple che di Microsoft, è anche socio di Bill Gates nella Fondazione.

Warren Buffett 17 miliardi

A che scopo fare beneficienza

La beneficienza organizzata direttamente dagli imprenditori del settore tech e finanziario, che donano cifre impressionanti al benessere del pianeta, va certamente valutata caso per caso. Ma ha caratteristiche interessanti: innanzitutto viene effettuata durante la vita e non post-mortem e lo scopo è quello di “cambiare le cose”. In un certo senso, gli imprenditori si attivano anche per avere un ruolo nel modo con il quale i soldi che donano vengono utilizzati, sino a sostituire alcuni dei corpi intermedi con le proprie fondazioni e acquisire il controllo di una fetta molto ampia dei settori che ricevono le donazioni.

Questo espone le fondazioni e gli approcci utilizzati ad esempio da Gates e Buffett a critiche piuttosto nette da parte di osservatori e studiosi: investendo capitali così ingenti e scegliendo quali settori promuovere, e quali enti e aziende beneficiare dei capitali per la ricerca o il sostentamento del pianeta o di altre cause, le grandi fondazioni stanno sostanzialmente rendendo il mondo una monocultura in cui le iniziative non profit vengono comunque selezionate e validate dallo stesso gruppo di persone che esercitano un controllo molto elevato sul settore chiave della tecnologia.

A voler pensare bene, questo permette di dare un seguito coerente alle politiche e strategie delle aziende, a voler pensare male invece permette di censurare linee di pensiero ed esperimenti non solo tecnologici ma anche economici e soprattutto sociali che non siano coerenti con il “gusto” e la visione del mondo di chi crea le fondazioni e si attiva per spendere parte del suo tempo a farle funzionare.

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Tutto questo ha un fondamento religioso, dice la vulgata soprattutto negli Usa, perché ha a che fare con l’etica protestante che, come scrisse Max Weber, è anche lo spirito del capitalismo. Nella religione protestante i ricchi sono prescelti da Dio. E quindi i poveri sono reietti. L’elemosina si colora di pena e disprezzo. I filantropi per vocazione professionale non sanno di essere anche dei misantropi, insomma.

Il grande fraintendimento riguardo a queste donazioni tramite fondazione gestite nel corso della propria vita sta proprio in questo passaggio: Bill Gates e adesso Jeff Bezos non sono dei San Francesco che si spogliano dei loro beni donandoli ai poveri e poi vivono tra essi amando tutto il creato con semplicità e ingenuità.

Invece, le fondazioni hanno un obiettivo scientificamente costruito e basato sull’approccio dei loro creatori, che ha il difetto di essere un approccio assolutamente non democratico e deciso invece nel chiuso di alcuni uffici da pochissime persone, estremamente ricche.

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Qual è l’obiettivo? Sulla carta più che lodevole: aggredire le ingiustizie nel mondo» e «migliorare la vita della gente, con una filantropia «final-
mente scientifica» e imprese di carità che sono a tutti gli effetti le più grandi superpotenza del ramo, ben più ricca ed efficiente delle Nazioni Unite, dei missionari, della Chiesa cattolica.

Al centro del capitalismo liberatore, diceva in un incontro il giornalista Francesco Merlo, “c’è la Fondazione, divisa in zone di competenza, diversificata in base agli obiettivi di un’etica che ha preso delle decisioni piuttosto nette: l’investimento come rivoluzione, il profitto per impedire all’uomo di essere nemico dell’uomo, per controllare la natura, per appoggiare le cause giuste, per far studiare i poveri, per lottare contro la corruzione che è una delle peggiori piaghe del Terzo Mondo, per pianificare lo sviluppo familiare, per sviluppare l’ingegneria idrica, per curare, avanzare, progredire”.

Da questo punto di vista la Fondazione caritatevole si occupa di tutto, e tende a sostituire tutti quelli che vorrebbero provarci autonomamente in altri modi e con altre etiche, anche nelle situazioni più estreme come le catastrofi nucleari.

Su temi delicati come diritto alla vita, aborto, lotta all’Aids, anticoncezionali, ma anche su cambiamento di sesso, evoluzione delle comunità, adozioni non convenzionali, costruzione di modelli economici e sociali diversi (comuni, cooperative, forme di poliamore) e rivoluzionarie (riorganizzazione degli Stati assoggettati a governi non democratici ma amici delle Fondazioni) le scelte chi le fa? La Fondazione, che ha le sue idee e i suoi standard morali ai quali, con gli ingenti investimenti che azzerano tutte le alternative, bisogna adeguarsi, anche se la nostra sensibilità è differente.

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Liberalismo contro welfare

Questa logica di “mangia la minestra o salta dalla finestra” rientra in una divisione che esiste tra le forme di democrazia di Paesi diversi: democrazie liberali (come gli Usa) e democrazie sociali (come la nostra in Italia) basata sul concetto di welfare. L’idea delle democrazie sociali come la nostra, scrive l’economista recentemente scomparso Gianni Toniolo, “Il welfare state è la più grande innovazione sociale del Ventesimo secolo. Dalle prime timide origini di fine Ottocento, la spesa pubblica sociale è progressivamente aumentata, sostenuta sia dallo sviluppo economico sia dalla “voce” popolare, veicolata dal suffragio universale, soprattutto femminile. Dopo il 1945 è diventato un tratto caratteristico della civiltà europea. Nonostante le origini socialdemocratiche, è stato abbracciato da conservatori, democristiani, liberali. Dal 1945 al 2007, la spesa sociale in rapporto al Pil è cresciuta ininterrottamente nei principali paesi europei, con due sole brevi eccezioni nel Regno Unito e in Svezia. Il “neoliberismo” non ha intaccato il consenso politico e sociale creatosi attorno al welfare state”.

Sempre Toniolo aggiunge: “Lo stato sociale sembra contraddire il postulato economico che non esistono pranzi gratis: accresce equità e protezione senza ridurre la crescita del Pil. In alcuni casi però ci riesce meglio che in altri. Peter Lindert, esaminando la spesa sociale di molti paesi dal primo Novecento a oggi, conclude che hanno maggiore successo i sistemi di welfare che: a) distribuiscono equamente i benefici tra le generazioni , b) si basano su una finanza pubblica progressiva e amica dello sviluppo, c) prestano particolare attenzione alla maternità, alla prima infanzia e alla scuola, d) hanno un sistema sanitario che assicura, a costo contenuto, una lunga durata della vita media, e) sono amministrati in modo efficiente”.

Bill Gates con Al-Walid bin Talal
Bill Gates con Al-Walid bin Talal

Mendicanti e cittadini

Il welfare come alternativa a una logica di “fai da te”, in cui la società è solo un tenue insieme di regole che debba dare la massima libertà ai più forti. Scriveva più di un secolo fa Leone Tolstoj, “Il diavolo della filantropia inculca agli uomini che se rapinano e danno briciole ai rapinati fanno opera benefica e non devono più voler essere migliori“. Non pensava certo a Jeff Bezos, ma più in generale allo spirito di una Russia lontana, cattiva, in cui era praticata la schiavitù (i servi della gleba) e in cui le diseguaglianze sociali erano tali da aver portato a una rivoluzione estrema, fortissima e disgraziata come è stato il comunismo della Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, tra le cui macerie vive l’attuale regime moscovita.

Tuttavia, ecco alla fine perché le grandi donazioni alla Jeff Bezos e, prima di lui Bill Gates e Warren Buffett, non sono neutre o pensate per il bene dell’umanità come un santo le intenderebbe. Sono invece altro: una alternativa devastante (nel senso che devastano) all’organizzazione della spesa sociale e al progresso di un sistema che, tra molti limiti e contraddizioni, è mirano all’inclusione e alla partecipazione.

In questa lotta di idee oltre che di denaro, le persone che ruolo hanno? L’anonimo G.A citato all’inizio con il suo manifesto sul Sole 24 Ore fa un ragionamento demagogico e facile, che si scioglierebbe facilmente davanti al primo fiscalista o al primo consulente d’azienda: dirottare i soldi derivanti da valutazioni di mercato e altri tipi di asset verso un generico impatto sui dipendenti, che poi tali non sono perché rientrano in fattispecie molto diverse e in sistemi giuridici di Paesi differenti, è facile demagogia. Neve che si scioglie al sole di chi dica: “Va bene, fallora fallo”, perché semplicemente non funziona così.

Ma G.A apparentemente in modo involontario tocca un punto lo stesso molto importante. Questa beneficienza non è tale. E anzi, fa decisamente male oltre che bene.

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