Rifugiati Rohingya – un gruppo di fede musulmana che risiede principalmente in Myanmar nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh e fanno parte degli strati più poveri della popolazione – hanno avviato due class action stimate in 150 miliardi di dollari contro Meta (l’azienda sotto il cui cappello c’è anche Facebook), per il presunto ruolo dell’azienda nel genocidio di alcuni rifugiati.
Nelle due azioni collettive, depositate in forma anonima nel Regno Unito e negli Stati Uniti, si afferma che la piattaforma di Facebook ha contribuito a divulgare discorsi di incitamento all’odio contro i Rohingya e disinformazione, incitando alla violenza gli utenti, culminata in stupri, uccisioni e torture di centinaia di migliaia di Rohingya, costretti a scappare dal Myanmar per sfuggire a violenze e persecuzioni.
L’azione legale nel Regno Unito è stata intentata a nome di tutti gli stranieri Rohingya non residenti negli Stati Uniti, mentre la class action presentata separatamente negli USA è stata presentata a nome delle comunità Rohingya che si trovano negli Stati Uniti.
Nella denuncia presentata negli USA (qui in PDF) i rifugiati affermano che i dirigenti di Facebook hanno consentito per anni la pubblicazione di post contro la popolazione Rohingya, su commissione del governo di Myanmar. Il governo birmano non riconosce la loro la cittadinanza e non permette ai Rohingya di muoversi liberamente nel paese, una situazione precipitata dal 2017 – spiega Save The Children – con centinaia di villaggi distrutti, decine di migliaia i morti e le vittime di violenza di genere attraverso attacchi sistematici alla popolazione civile.
La Corte internazionale di giustizia (organo giudiziario delle Nazioni Unite) a gennaio 2020 ha ordinato al governo birmano di prendere disposizioni immediate per fermare la violenza, in applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
Nei documenti presentati per la class action, si afferma che gli algoritmi di Facebook avrebbero continuamente suggerito agli utenti di unirsi a gruppi estremisti, continuando a visualizzare post provocatori e contenuti controversi, dando priorità a link che inneggiano alla violenza solo perché (per come funzionano gli algoritmi del social) questi avrebbero offerto un maggiore “engagement” (tasso di coinvolgimento di una pagina Facebook).
La piattaforma di Facebook sarebbe stata sfruttata nel 2018 per fomentare divisioni e incitare alla violenza, nonostante il social fosse stato avvisato già nel 2013 di estese campagne anti-Rohingya, con gruppi e account creati ad hoc al solo scopo di fomentare le violenze.
Non è la prima volta che Facebook è accusata di fomentare l’odio e diffondere notizie false, evidenziando lacune enormi da parte della società nella moderazione dei contenuti e nel garantire la sicurezza e la salute degli utenti.
Frances Haugen, l’ex dipendente che ha fatto trapelare e migliaia di documenti interni all’azienda, ha accusato il social di mettere il profitto davanti a tutto, nonostante sappia perfettamente quanto i suoi algoritmi siano dannosi.