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Ecco perché è certo che Apple lascerà Intel

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Un tempo, presso gli antichi Romani, gli aruspici leggevano il futuro da segnali misteriosi: consultavano gli dèi per capire la loro volontà e agire quindi con il loro consenso. La divinatio era l’arte di interpretare questi segni e gli aruspici la esercitavano esaminando le interiora degli animali sacrificati.

Questo sguardo volto verso l’interno, esplorativo, psicologico, introspettivo, è quello che tante volte troviamo amplificato sui media. Soprattutto quando si parla del futuro di Apple, l’azienda che se ci fosse avrebbe già vinto più volte il premio “rumoristi dell’anno”: di indiscrezioni e analisi fatte sulla sua pelle senza praticamente neanche consultarla ne ha già viste tantissime. Eppure, una ricerca un po’ più attenta e una lettura competente rivela sempre qualcosa di nuovo.

In questo caso l’aruspicina (e soprattutto gli omina, i presagi) su Apple servono a capire qualcosa che riguarda il suo rapporto con Intel: la produttrice di chip per i Mac infatti si è tramutata da tempo nel collo di bottiglia per la realizzazione di computer in quantità. E questo sta portando la relazione tra le due aziende a un punto di flessione che potrebbe prendere la forma di una spaccatura.

Il tema è da tempo sulla tavola di tutti i giornalisti che si occupano di Apple e di tecnologia: lo switch dai processori di Intel a quelli ARM prodotti internamente – e già utilizzati su iPhone e iPad. Uno switch del quale non si parla mai esplicitamente in Apple, ma che sarebbe folle se non fosse quantomeno una opzione per la casa di Cupertino.

Facciamo un aruspicino, leggiamo un segno che è un presagio – un omine – uscito direttamente da Tim Cook: durante la presentazione dei risultati trimestrali, dei quali Macity ha già abbondantemente parlato, c’è una frase molto interessante che è stata detta dal Ceo di Apple: Apple ha ricevuto un colpo che vale almeno il 5% del fatturato del segmento Mac e MacBook per via dei vincoli dati dalla limitata disponibilità delle CPU Intel.

Cosa si legge in questo segno? Ovviamente che c’è un problema. E che questo problema si somma anche al momento strategico del mercato. Apple ha chiuso – per adesso – la relazione con Intel per la produzione di modem 5G degli iPhone ed è tornata tra le (costose) braccia di Qualcomm. E potrebbe chiudere la relazione anche con le CPU di Intel, se si guarda la storia remota dell’azienda di Cupertino.

Gli attuali processori Intel sono nella pancia dei Mac a causa della incapacità di IBM e Motorola (all’epoca in partnership con Apple) di produrre dei processori PowerPC adeguati: G5 abbastanza performanti e “freschi” per i portatili (non sono mai stati fatti) e G4 più potenti (mai fatti neanche questi, mentre i G3 sono morti strada facendo).

Intanto che Motorola andava a gambe levate, fu IBM a scegliere il mercato dei processori Risc PowerPC per Playstation (i “Cell”) e per server come futuro possibile, abbandonando le versioni più complesse e costose per i Mac. Steve Jobs tagliò la testa all’accordo ma solo dopo aver aspettato, essersi più volte arrabbiato e aver costruito un accordo in alternativa con Intel.

Tim Cook incontrerà in Francia Emmanuel Macron il 23 ottobre

Prima dei PowerPC ci furono altri processori nel mondo Mac: i Motorola della serie 68000. Quella strada venne abbandonata per creare il consorzio a tre con anche IBM, di cui abbiamo appena detto.

Ma oggi invece cosa succede? Prendiamo il punto di vista di Intel: nonostante le promesse, l’azienda dal 2010 non riesce più a stare dietro alla legge di Moore, e la considera praticamente morta, anche se ovviamente non ne parla esplicitamente.

Per compensare il fatto di non riuscire ad aumentare la miniaturizzazione delle componenti ogni 12–18 mesi riducendo la dimensione dei transistor con lavorazioni attualmente sotto i 14 nanometri (ma dovremmo essere arrivati a 7 nanometri), Intel ha creato una serie di soluzioni ibride in cui i chip, con sempre più nuclei autonomi di calcolo e componenti diverse, funzionano anche con pezzi più piccoli di altri. La scelta è particolarmente complessa e difficile perché porta a errori nella produzione: da qui il numero limitato di “pezzi” in circolazione.

Poi c’è un altro problema: la pianificazione di tutto il mondo PC, e dal 2007 anche Mac, è orientata sulla crescita “stabile” dei processori. Non è solo una questione di miniaturizzazione o di potenza, ma anche di consumi e dissipazione del calore. I produttori, soprattutto come Apple, avviano progetti per le loro piattaforme (le varie generazioni di Mac e MacBook) pensando che i processori evolvano in modo lineare, per poi passare a un modello differente di scocca – ovviamente sempre più sottile – quando si arriva a un salto di qualità significativo nei processori – e nelle altre tecnologie – che lo permetta.

Tutti i segnali esterni che Apple lascerà Intel

Prendiamo ad esempio il MacBook Pro: nel 2012 Apple ha creato la versione precedente a quella attuale, senza più lettore DVD, molto sottile, performante. L’ha ulteriormente raffinata tre anni fa, ma non l’ha cambiata in maniera sostanziale: c’è sempre lo stesso spessore per contenere processori con un determinato TDP, Thermal design profile, cioè una misura del calore che deve essere dissipato durante il funzionamento della CPU.

Ma i processori di Intel sono sempre meno processori “normali”: la TDP a velocità base è in realtà quasi una scusa, perché il realtà il processore per riuscire a funzionare deve avere altre componenti attive e girare con un wattaggio e un clock più elevato. È in buona sostanza il turbo, l’overboost, che spinge i MacBook 15 con processori i9 a sei nuclei di calcolo fuori dai parametri previsti e fa partire le ventole a manetta, va in protezione oppure finisce rapidamente la batteria. Il nuovo firmware contiene il tutto, ma la performance che si ottiene è chiaramente drogata, non è figlia di un processore organicamente potente per quella soglia di consumi e temperatura.

Senza contare poi che il design dei Mac adesso rimane congelato – e anche gli aggiornamenti – sostanzialmente perché gli ingegneri di Cupertino non vedono motivo per cambiare. I miglioramenti da una generazione all’altra sono minimali, la performance e i consumi non giustifica la reingegnerizzazione di tutta una piattaforma, al limite uno speed bump ma poco più. Da un anno all’altro, non si potrebbe produrre un Mac con caratteristiche strutturali e di scocca ancora più spinte semplicemente perché i nuovi processori queste caratteristiche non le hanno-

Se ci fosse da arrabbiarsi, da parte di Apple, queste sarebbero le ragioni. E sicuramente ci sono molte altre aziende – come Lenovo, Hp e molte asiatiche.
Apple mira ad app uniche per iPhone, iPad e Mac entro il 2021Ma c’è un altro passaggio interessante. A parte le varie tecnologie come Marzipan che devono permette di gestire app sviluppate da un nucleo comune e poi declinate per macOS e per iOS, c’è un’altra transizione che sta per compiersi. È il passaggio da 32 a 64 bit che con macOS 10.15 si concluderà eliminando il supporto per le app a 32 bit (il motivo per cui, ad esempio, app legacy – cioè non più aggiornate – come Aperture non funzioneranno più).

Ecco, quel momento in cui tutti saranno sulla stessa barca, sarebbe il momento per cambiare barca. Perché lo switch da una architettura all’altra diventa molto più facile se tutte le app sono fatte con la stessa tecnologia, se funzionano solo tutte quelle “firmate” digitalmente (cioè che passano da Xcode) e se vengono scritte utilizzando un sistema che permette di ricompilarle sia nella versione Intel che in quella ARM di Ax, i processori di Apple.

I segni insomma ci sono tutti. Vedremo cosa ci dirà la WWDC 2019 a giugno.

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