Il sogno americano si evolve costantemente, ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe arrivato a questo: premere un pulsante sullo smartphone e far arrivare non solo un autista, ma un ex militare armato pronto a scortare il cliente come una celebrità.
L’app si chiama Protector (è disponibile solo negli Usa) ed è esattamente ciò che suona: Uber ma con la pistola, una formula tanto sintetica quanto inquietante che racchiude perfettamente l’ennesima frontiera del capitalismo digitale. Nata negli Stati Uniti – dove altrimenti? – e disponibile a New York e Los Angeles, l’applicazione promette di democratizzare il privilegio della sicurezza privata, portando guardie del corpo a portata di click per la modica cifra di 100 dollari l’ora.
Se volessimo giocarla con un paradosso potremmo dire che ci siamo: ecco servito l’ultimo stadio della gig economy: dopo aver precarizzato rider, autisti e addetti alle pulizie, ora tocca ai veterani militari e agli ex agenti delle forze dell’ordine reinventarsi come “protettori” a chiamata. L’economia dei lavoretti raggiunge così il suo apice distopico, trasformando persino la sicurezza armata in un servizio occasionale che si può ordinare con lo stesso gesto con cui si ordina una pizza o un passaggio in auto.
La digitalizzazione del mercato del lavoro dimostra ancora una volta la sua natura ambivalente: crea opportunità occupazionali per chi ha il grilletto facile ma contemporaneamente disgrega professioni storicamente stabili come gli sceriffi privati e i bodyguard (celebrati anche da un famoso film con Kevin Costner), riducendole a prestazioni occasionali senza tutele né continuità.

Il messaggio è chiaro, per chi lo vuol capire
L’uberizzazione di tutto procede inesorabile, colonizzando territori che fino a ieri sembravano intoccabili perché troppo legati alla sfera istituzionale o a quella della sicurezza nazionale. L’innovazione digitale ha prima trasformato il trasporto, poi il cibo a domicilio, successivamente i servizi domestici, per arrivare oggi a mettere le mani su un ambito tradizionalmente riservato alle élite o alle istituzioni: la protezione personale armata.
Il messaggio implicito è ormai chiaro: qualsiasi servizio, indipendentemente dalla sua natura o dalle competenze richieste, può essere trasformato in un’applicazione scaricabile, frammentato in prestazioni occasionali e messo a disposizione del miglior offerente. A quando un Presidente del Consiglio on demand? Pur di avere il potere anche solo per mezz’ora non dubitiamo che parecchi politici in tutto il mondo, Italia compresa, sottoscriverebbero.
Alla base di questa nuova proposta commerciale sulla difesa armata uberizzata si cela una forma particolarmente redditizia di capitalismo: quello che monetizza la paura. In un’epoca di percezione crescente dell’insicurezza, alimentata dai media e amplificata dai social, l’idea di poter acquistare protezione con un semplice tap sullo schermo diventa irresistibile per molti. La genialità perversa di Protector sta proprio qui: non vende sicurezza reale, ma l’illusione di controllo in un mondo percepito come sempre più pericoloso e imprevedibile. Come tutti i modelli di business più efficaci, non risolve un problema, ma sfrutta un’ansia collettiva trasformandola in un’opportunità di profitto.
Giocare ancora con i soldatini
Particolarmente interessante è la promessa di democratizzazione del privilegio: chiunque, con cento dollari in tasca, può sentirsi per un’ora una celebrità scortata da guardie del corpo in uniforme tattica o in abiti eleganti. L’app permette persino di scegliere il numero di Escalade nel proprio corteo e l’abbigliamento delle guardie, in un tripudio di personalizzazione che evoca più un gioco di ruolo che un servizio di sicurezza. La fantasia di potere che sottende questa proposta è palpabile: per un’ora, il cliente medio può assaporare l’esperienza esclusiva riservata normalmente ai potenti, in un simulacro di status che maschera la banalità del meccanismo sottostante.
Il paradosso tecnologico emerge in tutta la sua evidenza: gli stessi smartphone che dovrebbero connetterci e renderci più sicuri diventano portali per servizi che alimentano isolamento e paranoia. La tecnologia che prometteva di abbattere barriere finisce per erigerne di nuove, più sottili ma non meno insidiose, tra chi può permettersi protezione privata e chi no. Invece di costruire comunità più sicure attraverso soluzioni collettive, l’app propone un modello individualista di sicurezza che, se portato alle estreme conseguenze, potrebbe trasformare le città in arcipelaghi di microzone protette, circondate da territori di nessuno.
Le implicazioni sociali di questa evoluzione sono profonde e meritano riflessione: cosa accade quando la sicurezza, tradizionalmente considerata un bene pubblico garantito dallo Stato, diventa un servizio premium acquistabile dai singoli? È già così, intendiamoci, ma c’è l’attrito del mondo reale. Le app disintermediano e chiunque viva nel centro storico di una città italiana, dove ormai i lucchetti degli appartamenti messi su Airbnb sono diventati la norma, superando anche quelli degli innamorati sui ponti, ha idea di cosa vuol dire rimuovere l’attrito del mercato. Esplode tutto. E la crescente privatizzazione della sicurezza personale segna una frattura nel patto sociale che sta alla base delle democrazie moderne, dove la protezione dei cittadini dovrebbe essere garantita in modo eguale a tutti, diventando anche etimologicamente uno “scandalo”, cioè qualcosa che viene portato alla luce del sole.
Protector, con la sua apparente innocuità e innocenza da startup tecnologica, rappresenta in realtà un tassello di un mosaico più ampio di disimpegno pubblico e atomizzazione sociale.
Particolarmente ironico risulta il contrasto tra questa app e il dibattito sempre acceso sul controllo delle armi negli Stati Uniti: mentre si discute di limitare l’accesso ai fucili semiautomatici, ecco che si sdogana la possibilità di avere a disposizione guardie armate con la stessa facilità con cui si ordina una pizza con l’ananas. La normalizzazione della violenza potenziale come servizio di lusso rappresenta uno scivolamento preoccupante nella percezione collettiva del ruolo delle armi nella società. In un contesto già saturo di tensioni sociali, questo tipo di servizio rischia di accentuare ulteriormente le divisioni, creando un’élite protetta e una maggioranza esposta, perpetuando l’idea che la sicurezza sia un privilegio da acquistare e non un diritto da garantire.
I lucchetti on demand alla società
Guardando al futuro prossimo, viene da chiedersi quali altri servizi fondamentali verranno “app-ificati” nei prossimi anni. Forse presto avremo l’Uber dell’assistenza sanitaria d’emergenza, con medici a gettone pronti a intervenire per chi può permetterselo. O magari l’Airbnb dell’istruzione, con insegnanti che affittano il proprio sapere a ore per studenti privilegiati. In questo slittamento progressivo verso la frammentazione di ogni servizio in prestazioni occasionali e disuguali, un banale Uber con la pistola non rappresenta un’anomalia, ma solo la naturale evoluzione di un sistema economico che trasforma ogni necessità umana in un’opportunità di mercato.
La vera domanda non è se Protector avrà successo – probabilmente lo avrà – ma fino a che punto siamo disposti a spingere questa logica prima di renderci conto che alcune cose non dovrebbero essere disponibili con un semplice swipe sullo schermo. Dalla fidanzata al bodyguard armato, passando magari anche per tutto il resto.